• domenica , 24 Novembre 2024

Saremo austeri ma più felici

Psicologi, sociologi e perfino economisti avanzano un’ipotesi: la recessione può essere un’occasione per scoprire nuove scale di valori. E le difficoltà possono diventare un’opportunità per vivere meglio. Ecco come
Ormai è provato: il Pil non fa la felicità. Negli ultimi cinquant’anni, nonostante il benessere materiale sia cresciuto sensibilmente, il diagramma della felicità – inteso come soddisfazione della propria condizione di benessere – non lo ha seguito; anzi, dopo una prima fase in cui i due indicatori hanno marciato correlati, dopo un certo livello di reddito il secondo è rimasto piatto: a significare che, conquistati i beni essenziali, tutto ciò che otteniamo in più non ci rende più appagati e contenti.
Ma cosa accade se quello che abbiamo improvvisamente ci può sfuggire di mano? Se il nostro status sociale viene insidiato da un licenziamento, da un rovescio negli affari, o se il debito pubblico – come accade oggi – ci presenta il conto chiamandoci a rispondere di quel carico con il nostro reddito e i nostri risparmi, facendo rinunce, tagliando spese, abbandonando progetti? Come si reagisce all’austerity e come agisce l’austerity sulla nostra serenità personale, sul nostro ménage e sul rapporto con figli e amici? E l’età della sobrietà in cui siamo entrati sarà solo un tirare a campare, con le tutele del welfare che si riducono, dalla sanità alle pensioni, oppure può diventare un’occasione per una revisione epocale della nostra scala di valori e di bisogni, come suggerisce Jeffrey Sachs nel suo nuovo libro, “The price of civilization”? Antropologi, sociologi, economisti, se lo stanno chiedendo. Proviamo a mettere in ordine le loro risposte.
Fateci caso. C’è quello che: “Non mi sento più povero perché, consumando meno, sto salvando il pianeta”. Quello che scopre com’è vantaggioso far aggiustare tutto dall’artigiano sotto casa – manca poco all’elogio del cappotto rovesciato – e quello che al rincaro della benzina risponde con la bicicletta, nostra intifada contro sceicchi e multinazionali. Strategie pratiche contro questi tempi di penuria, con la crisi che svuota i portafogli, certo, ma anche strategie psicologiche.
Piccole tattiche per trovare piacere in quello che si fa nonostante le rinunce. Perché il malessere in cui ci ha precipitato il “double dip”, la recessione che prima ti illude di esserne fuori e respirare a pieni polmoni, e poi ti sommerge di nuovo e ti spinge sotto senza pietà, si chiama incertezza, depressione da mancanza di futuro, di progetto, di vie d’uscita. Quanto di peggio per condannarti, te individuo, famiglia, società, a una dolorosa traversata nel deserto: in fondo al quale o c’è la sindrome giapponese – un Paese invecchiato e a crescita zero – o la prospettiva di diventare la Disneyland d’Europa, secondo la profezia di Niall Ferguson sul “Wall Street Journal”.
Tempi bui dunque, ma anche occasione d’oro per chi fosse in grado di coglierla: aziende in cerca di visibilità, politici disposti a offrire un nuovo patto sociale, nuove élite vogliose di leadership. Purché sappiano usare i tasti giusti. Perché questa età sembra dare una chance a valori che stentavano a conquistare l’attenzione collettiva: parole come qualità, etica, sobrietà, sostenibilità, responsabilità sociale, partite dalle bocche degli indignados, cominciano a farsi strada e proporre un futuro nuovo per fette sempre più ampie dell’umanità che vive in questo Occidente spaventato e impoverito. In cui, per dirla con il giurista Guido Rossi, c’è ormai “una differenza insostenibile di redditi e di possibilità di costruirsi un futuro”. Se riprende corpo una promessa di futuro, può riaccendersi la fiammella della felicità.
A dirlo sono le neuroscienze: “La mente umana di fronte all’incertezza tende più facilmente a proiettare scenari negativi più che positivi”, spiega Matteo Motterlini, professore di Neuroeconomia al San Raffaele di Milano, ora visiting professor alla Ucla: “Così tendiamo a sovrastimare i pericoli e le potenziali perdite; ed è questo che psicologicamente ci fa più male dell’austerity”. “Per essere più felici in tempi di depressione”, aggiunge Enrico Giovannini, presidente dell’Istat e tra i massimi esperti mondiali del dialogo tra economia e benessere, “occorre usare questa fase di difficoltà per progettare, e così anticipare i futuri benefici”. Che dovrebbe essere il mestiere della politica.
E che la felicità abbia molto a che fare con la politica, alcuni leader lo hanno capito da tempo. Sarkozy, Obama, Cameron, l’hanno talmente presa sul serio che usano questa relazione nei loro processi decisionali. Obama ne ha tenuto conto per introdurre, per esempio, la riforma dei mutui e quella sanitaria, Sarkozy ha creato una commissione di risonanza mondiale per costruire il “Pil del benessere” (in cui siede anche Giovannini), Cameron ha finanziato un National Wellbeing Survey con 2 milioni di sterline. In scala, il problema viene affrontato in diverse regioni italiane, dal Piemonte (con l’indice della qualità della vita nelle provincie dell’Ires) al Veneto, alla provincia di Pesaro (con una valutazione del benessere equo e sostenibile), alla Romagna con la Wellness Valley. E la London School of Economics ha inventato recentemente una app da scaricare su iPhone con cui registrare lo stato di felicità dei cittadini di Londra: un beep ti chiama a dichiarare il tuo umore in quel momento, in relazione soprattutto all’ambiente esterno, cioè ai rumori, all’inquinamento, agli spazi verdi, dando vita a un tasso collettivo di felicità in perenne movimento.
Il fatto è che dopo il decennio migliore vissuto dal mondo, quello in cui ha fatto il balzo più forte in termini di lotta alla povertà e crescita dell’educazione secondo il Millennium goals report dell’Onu, qui in Occidente il nostro modello sociale sembra agli sgoccioli. Non vale a nulla il fatto che i dieci anni trascorsi abbiano raddoppiato la sua ricchezza, secondo un rapporto del Credit Suisse – anche in Italia è, per ciascuno dei 47 milioni e mezzo di adulti, pari a 260 mila dollari, più del doppio di inizio secolo, mentre la Banca d’Italia certifica che da noi la ricchezza è pari a 8,3 volte il reddito, più di Francia, Gran Bretagna, Usa, Giappone. “Ci lasciamo alle spalle una società depressa, con l’angoscia della performance: non ci lasciamo certo dietro il paradiso”, osserva Mauro Magatti, sociologo alla Cattolica di Milano.
Lo sanno bene, in Italia, i due milioni di disoccupati, i 2 milioni e 200 mila giovani che non studiano né lavorano, quel 20 per cento di famiglie che a causa della crisi vanno meno dal medico, quel 30 per cento che ha dovuto rimpicciolire il proprio ménage sia in quantità che in qualità. L’Ires Cgil stima in 8 milioni gli individui in sofferenza, l’Ania testimonia che la vulnerabilità economica cresce e tocca una famiglia su due, mentre il 70 per cento di fronte a una spesa imprevista si troverebbe in forte difficoltà. Con una forbice tra stipendi e aumento del costo della vita che non è mai stata così ampia dal 1997.
Mentre da un lato si rischia la Spoon river sociale, dall’altra le neuroscienze si preoccupano, negli Usa, di curare la dipendenza dallo shopping compulsivo, mettendo ko con appropriati stimoli magnetici il “moneybrain”, quei neuroni spendaccioni situati nella corteccia prefrontale. Forse non è un caso che una simile ricerca venga dalla civiltà che ha insegnato a tutti il consumismo, ma da cui oggi viene la denuncia più forte contro i ricchi sempre più ricchi e contro lo yuppismo anni ’80, con il movimento del “99 per cento”
Se il denaro non serve a comprare la felicità, è anche vero che la transizione verso una “economia dell’abbastanza” non è un cammino facile. “La maggior parte delle persone pensano che il rapporto con il denaro appartenga al campo del razionale”, spiega Motterlini, “invece scatena emozioni come l’orgoglio, l’onore, il senso di ingiustizia, la paura, la rabbia, l’invidia”. E in tempi in cui le differenze economiche si accrescono, queste tempeste emotive giocano contro la nostra speranza di felicità. “A pesare sul nostro cervello sono i cambiamenti relativi, non quelli assoluti”, aggiunge Motterlini: “Una nuova tassa, l’aumento del prezzo della benzina, non importa quanto pesanti, vengono codificati immediatamente dal nostro cervello in termini di perdite. E, per come ci siamo evoluti, le perdite pesano psicologicamente oltre il doppio dei guadagni; in particolare l’evidenza neuroeconomica mostra che esse attivano quell’area del nostro cervello, l’amigdala, che fiuta i pericoli che possono mettere a repentaglio la sopravvivenza della nostra specie. In secondo luogo pesa il confronto con gli altri: la disuguaglianza ci rende più infelici dell’austerità”. Con un risvolto sul piano dei comportamenti sociali messo a fuoco dal direttore dell’Osservatorio dei consumi delle famiglie dell’Università di Verona-Swg Domenico Secondulfo: “Il circuito dei ricchi e quello dei nuovi poveri si differenziano: nei momenti di espansione la ricchezza genera invidia, in quelli di crisi aggressività, così i ricchi si ritirano tra di loro”.
Come possono essere utilizzate oggi queste chiavi del nostro cervello, dai politici e dai governanti? C’è un modo per infliggerci tagli e tasse e non condannarci alla frustrazione e all’infelicità? Secondulfo tira in ballo la “dissonanza cognitiva”, quel fenomeno per cui l’individuo che deve fare una cosa che non gli piace o si ribella oppure dopo un po’ si rassegna. Ma per il neuroeconomista Motterlini “quello che paralizza è l’impossibilità di stabilire e valutare il rischio connesso agli eventi: se nessuno è più in grado di calcolare le risorse di cui può disporre, tutto si ferma”. Dunque, occorre infondere certezze: anche somministrando medicine amare, ma dissipando quelle onde di insicurezza tra cui gli squali della finanza si muovono come nel loro elemento ma noi poveri pesci di stagno no.
Il sociologo Magatti, invece, la vede così: “E’ finito un ciclo iniziato quarant’anni fa, quando il ’68 ha fatto saltare il modello sociale nato nel dopoguerra in nome della libertà soggettiva. Ora, dopo trent’anni di esplorazione e dissipazione, dobbiamo chiederci cosa fare dopo quella lunga adolescenza, e cosa costruire in questa fase che chiamerei della maturità”. La libertà che ha puntato al benessere personale e della propria famiglia, o del proprio clan, deve aprirsi, per Magatti, a fare qualcosa di buono per la società: “La libertà deve diventare “generativa”: prendersi cura di se stessi ma anche di ciò che ci sta intorno, persone, ambiente. Un’azione che ricostruisca una scala di valori nella società e nell’impresa, e le fertilizzi. Si chiama “generatività” (ha un sito con questo nome e deriva da un’idea di Luigi Sturzo, ndr.): è un sogno culturale forse, ma richiede che partecipino tutti, dagli imprenditori ai politici, ai lavoratori”.
Utopia? E’ significativo però che le élite si interroghino, e che anche un profondo conoscitore di quello che scorre nelle vene della società come il direttore del Censis Giuseppe Roma confermi: “Rispetto al nostro proverbiale individualismo, si comincia ad anteporre l’interesse collettivo”. Nell’ultimo Rapporto annuale del Censis, gli italiani che si sono detti disposti a cedere sull’interesse proprio a vantaggio di quello generale erano il 57,3 per cento. La felicità che il Pil ci nega e che l’incertezza ci toglie ce la può dare una visione diversa della società? Certo, questa è un’aspirazione classica dei periodi di grande crisi come questo. Negli anni Trenta, ricorda Enrico Giovannini, nei suoi “discorsi al caminetto” Roosevelt affermava: “La gente di questo Paese è stata erroneamente incoraggiata a credere che si potesse aumentare indefinitamente la produzione e che un mago avrebbe trovato un modo per trasformare la produzione in consumi e in profitti per i produttori. La felicità non viene unicamente dal possesso dei soldi ma dal piacere che viene dal raggiungimento di uno scopo”. Suona bene anche oggi.
Da un’indagine Cnel-Istat sul Bes (il benessere equo e sostenibile), dopo la salute la prima preoccupazione degli italiani è quella di garantire un futuro ai figli. Ma come riuscirci, mentre si stringe la cinghia? “Non basta far crescere il Pil”, dice il presidente dell’Istat, “occorre far crescere i beni relazionali: famiglia, amici, ambiente”. Possiamo farcela diventando, nell’austerità, tutti migliori. Scongiurando la profezia di Secondulfo: “Se avessimo il denaro di dieci anni fa, torneremmo rapidamente tutti peggiori”.

Fonte: Espresso del 2 gennaio 2012

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