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Sanità, le opportunità delle Regioni

Volli, sempre volli, fortissimamente volli”- disse Vittorio Alfieri a proposito dello studio dei classici. Non so se un simile “volli” sia stato mai pronunciato da chi ha operato per prolungare la vita umana. Tuttavia, quando alla fine del XIX secolo, Bismarck introdusse la pensione a partire dei 70 anni di età, l’aspettativa di vita alla nascita era 50 anni. Un John White nato negli Usa nel 1970 ha un’aspettativa media di vita di 72 anni; suo figlio nato alla fine del XX secolo ne può contare su una di circa 80 anni; secondo gli ultimi dati, chi nascerà nei Paesi Ocse nel 2000 potrà pensare di varcare il capo dei 100 anni.

Se la fine della mortalità infantile è stato il motore che portato all’allungamento dell’aspettativa di vita dai tempi di Bismarck al secondo dopoguerra, gli effetti della lotta contro il cancro hanno caratterizzato gli ultimi 40 anni. I dati diramati dal National Cancer Insitute Usa a fine febbraio affermano che dal 1991 le morti per cancro negli Stati Unite sono diminuite dell’1% l’anno – quindi cumulativamente di un quinto. Negli Anni 60 le probabilità di sopravvivere più di cinque anni (dopo una diagnosi di cancro) erano una su tre; oggi sono due su tre. Una delle determinanti è la riduzione del fumo . Altre, più importanti, riguardano il progresso scientifico, specialmente per le patologie più diffuse. Adesso negli Usa soltanto un quinto degli uomini a cui è stato diagnosticato il cancro alla prostata (come avvenuto sei anni fa al vostro chroniqueur) morirà di quella malattia. Tuttavia, secondo il Commonwealth Fund, in Europa si è ancora lontani da questi traguardi: il 57% dei britannici ed il 50% dei francesi, dei tedeschi e degli italiani con una diagnosi di cancro alla prostata verrà portato nella tomba da quella patologia. Le statistiche sono analoghe per altre tipologie di cancro.
Quale la causa principale della differenza (pur tra uomini di Paesi con tenori di vita analoghi)? Michael Tanner del liberista Cato Institute, afferma che “il cancro avanza lentamente ed è molto costoso curarlo con la conseguenza che, per risparmiare spesa pubblica, non si applicano i trattamenti più efficaci dove la medicina è socializzata ed esistono servizi sanitari nazionali”.
E’ un giudizio apodittico. Anche ove fosse veritiero è difficile pensare che i Paesi europei siano pronti a rinunciare a considerare la salute un bene “sociale” e la sanità un servizio disponibile unicamente a chi se lo può pagare. D’altronde ben 40 milioni di americani non hanno alcuna copertura di sorta e possono morire per strada, senza né diagnosi né prognosi né tanto meno terapia. Anche negli Usa, la pressione sociale per intervento pubblico nella sanità sta crescendo (quel che ne pensi Tanner): le stime Ocse affermano che, pur introducendo misure di controllo dei costi, nel 2050 nei Paesi dei due lati dell’Atlantico la spesa pubblica per la sanità assorbirà tra il 10 ed 12% del pil.
In Italia le funzioni attribuite dalla Costituzione alle Regioni in materia di salute devono essere viste come un’importante finestra di opportunità. Da un lato, si può escogitare un meccanismo di “premialità” (analogo a quello applicato per i Fondi strutturali europei) per mettere le Regioni in competizione e ricompensare quelle che ottengono i risultati migliori. Da un altro, le Regioni possono promuovere l’attivazione (pur nel pubblico) di mercati interni per stimolare competizione e l’emulazione. La strada non è né breve né facile. Ma percorribile.

Fonte: Il Tempo del 5 marzo 2006

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