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Salvare il berlusconismo da Silvio

E’perché manca un’alternativa credibile, si finisce per dire, constatando che né crisi economiche, né sfaldamento di alleanze, né gaffes internazionali, né scandali di vario genere sembrano scalfire il consenso che raccoglie Berlusconi da 16 anni. Ancor più singolare è che, specularmente, nessuno cerchi di impadronirsi di un capitale politico che frutta un dividendo così rilevante e stabile. “Salvare il capitalismo dai capitalisti”, è il titolo di un fortunato libro di Raghuram Rajan e Luigi Zingales. Parafrasandolo: perché a nessuno sembra interessare salvare il berlusconismo da Berlusconi?
A costituire quel capitale, cioè il valore che gli elettori riconoscono al berlusconismo, c’è un generico ripudio dello statalismo, residuo della breve infatuazione liberale del 1994; c’è la televisione privata contraltare di quella pubblica, quella sì giudicata cattiva maestra; c’è la fiducia che chi si trova in conflitto di interessi sappia meglio difendere gli interessi degli individui contro il prevaricare dello stato. Berlusconi non ha ridotto la pressione fiscale, ma gli italiani si sentono capiti quando riconosce le ragioni di chi cerca di pagare meno tasse. E anche nella vicenda Mirafiori, dubitano che in un altro clima politico Marchionne sarebbe riuscito a prevalere sul blocco centralista dei rappresentanti delle ”parti sociali”.
In questo nucleo valoriale la questione giudiziaria occupa un posto centrale. La battaglia per ridefinire i rapporti dell’ordine giudiziario con il potere politico percorre tutta la storia del berlusconismo: dal 1994, con l’ingiunzione di Caserta in pieno G7, al tentativo della Bicamerale, alle “persecuzioni” che il Cavaliere non manca di elencare, fino a quella di questi giorni, che, emblematicamente, potrebbe essere la sua battaglia finale. Come nei casi del falso in bilancio, o dell’informazione, o del fisco, gli interessi personali di Berlusconi appaiono allineati con interessi generali: in questo caso non solo per i tempi e i costi della macchina giudiziaria, ma su questioni che toccano il privato e il pubblico, la libertà e la politica.
Qui sta il passaggio chiave: chi volesse proporsi come interprete e prosecutore della visione con cui Berlusconi ha vinto tre elezioni deve mettere la questione giudiziaria nel proprio programma. A ben vedere dovrebbe raccoglierla come una grande opportunità: infatti è quando c’è confusione che spicca chi sa distinguere, è quando l’opinione pubblica è frastornata che emerge chi riesce a spostare il discorso dal “particulare” ai principi generali.
Perché invece nessuno si muove? Che non succeda a sinistra è comprensibile (anche se, a livello individuale, sono più di quanto si pensi coloro che lo considerano un vero problema e non si discostano molto quanto ai modi per affrontarlo). Ma nel centro destra? Gli oppositori di Berlusconi dovrebbero aver imparato la lezione del 14 Dicembre, aver capito che la sua sostituzione non consegue a un voto senza programma, ma è il punto di arrivo di un progetto politico. Perché mai l’elettorato dovrebbe avere fiducia in chi ha così poca fiducia in sé da neppure candidarsi a correre per la leadership del centrodestra, nell’attesa che lo stallo gli regali il ruolo – per definizione provvisorio – di ago della bilancia? All’interno del PdL poi, nell’incapacità, o nella mancata volontà, di distinguere tra il livello del tema giustizia e quello dei fatti occasionali, tutta la scena viene lasciata a volonterosi pretoriani e ad avvocati. Eppure ci sono politici di primo piano credibili per garantire stabilità ai conti pubblici, far guadagnare un po’ di efficienza dalla PA, negoziare con Bossi un federalismo meno egoista, far fare qualche passo avanti alla riforma della scuola, trasformare il risultato di Mirafiori nella riforma delle relazioni industriali di tutto il Paese. E per assumere la questione giudiziaria nell’ambito di un progetto di governo.
Ridefinire un equilibrio tra potere politico e ordine giudiziario è questione reale, risale il tempo e travalica i confini dei fatti che hanno interessato i Governi Berlusconi, ha i suoi fondamenti nella cultura liberale. Oggi l’esito di questa vicenda si trova a dipendere dalle serate di Arcore, dagli sms e dalle interviste delle “demoiselles de la Reine”, da telefonate in questura. Può darsi che, a causa di ciò, la questione venga archiviata senza essere risolta. Così come può darsi che, proprio grazie a ciò, essa giunga a soluzione. Francamente si resta indecisi su che cosa sia peggio.

Fonte: Sole 24 Ore del 25 gennaio 2011

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