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Saccomanni:l’euro che corre non è un vaso di coccio

«Adesso tocca alla politica, cambi nell’ agenda del G20 di Seul» La Banca centrale europea dimostra tutta la sua indipendenza, è una roccia di stabilità alla quale guardano i mercati mondiali.
Non è più tempo di accordi solo sulle monete, da Bretton Woods al Plaza, che hanno segnato la storia valutaria dal dopoguerra in poi. La pace dei cambi si potrà raggiungere solo con uno schema di intesa multilaterale, Framework, col quale i Grandi s’ impegnano non solo a recuperare gli squilibri globali ma anche a evitare gli eccessi delle fluttuazioni delle monete. È questa l’ indicazione di Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’ Italia e grande esperto di negoziati e monete. «Non ci si può solo riunire e dire che lo si è fatto». Occorre qualcosa di più, aggiunge. «Occorre un segnale politico da parte del G20 di Seul che dia una veste istituzionale a questa cornice» in modo «da poter influenzare le aspettative del mercato», spiega Saccomanni. Davvero crede che i mercati siano attenti ai segnali politici? «Se c’ è un impegno multilaterale e c’ è chiarezza su cosa si vuole fare, sui paletti da osservare, i mercati si possono influenzare. Non è vero che sono incontrollabili. Certo per farlo occorre usare in modo coordinato e coerente tutti gli strumenti della politica economica: tassi di interesse, misure fiscali, come le tasse sugli afflussi di capitale, interventi sui cambi e anche le misure di natura macroprudenziale del Financial Stability board». Allora cosa non ha funzionato in questi giorni, col dollaro che si è indebolito su tutte le valute? «I mercati si aprono ogni mattina e si chiudono ogni sera, non sempre c’ e dietro una regia precisa. Non si può giudicare sulla base della singola giornata operativa. Ora per esempio il dollaro ha reagito alle mosse annunciate dalla Fed di cui però in realtà non se ne sa nulla, né quando né come saranno realizzate. Siamo attenti alle ipersemplificazioni». Cosa c’ è di semplice in quello che succede? «Non credo che Ben Bernanke, presidente della Fed, sia una persona che sottovaluti i problemi di stabilità dei prezzi. Il fatto è che negli Usa è un momento delicato, ci sono pure le elezioni…». Sì ma in Europa no. Perché l’ euro si apprezza? Non rischia la nostra moneta di restare schiacciata da un corpo a corpo tra dollaro e yuan? Di finire per fare la figura del vaso di coccio? «Un vaso di ferro, semmai. Comunque gli attori sulla scena sono quattro: Usa, Cina, Giappone ed Europa, e l’ euro è una moneta che ha un ancoraggio forte nell’ indipendenza e nella missione della Bce. Si potrebbe dire, con una lettura semplicistica dei fatti, che la Bce sia una roccia, una roccia di stabilità: nel momento in cui tutti i paesi vogliono svalutare, l’ euro diventa automaticamente la calamita del mercato e quindi si rivaluta». Oppure? «Si può dire che a livello globale l’ area dell’ euro non ha squilibri perché ha la bilancia dei pagamenti in equilibrio. Ma ha problemi all’ interno, tra i paesi che sono in surplus come la Germania e quelli in disavanzo che hanno perso competitività. In questo quadro, il cambio va seguito con grande attenzione: l’ euro forte stabilizza i prezzi e non rende necessaria una politica monetaria restrittiva. C’ è sempre cioè una compensazione da realizzare. In ogni caso la formulazione di strategie di riallineamento dei cambi delle quattro principali monete non può essere lasciata alle forze di mercato, ma va elaborata nelle opportune sedi di cooperazione internazionale col pieno coinvolgimento delle autorità monetarie europee». Vale anche per la Cina? Come si fa a convincere Pechino a rivalutare lo yuan? «I cinesi conservano l’ esperienza del Giappone che negli anni Ottanta e Novanta, su pressioni internazionali rivalutarono lo yen e poi finirono in recessione. E non vogliono rischiare». E allora come se ne esce? «Ecco il framework, l’ impegno multilaterale per la crescita. L’ intesa a livello globale che si fonda sulla cooperazione affinchè i paesi in surplus e quelli in disavanzo facciano la loro parte, dovrà dare la garanzia che non saranno possibili eccessi delle quotazioni, overshooting in termini tecnici. E’ una intesa messa in piedi tra i vertici di Londra e Pittsburgh: in Inghilterra nell’ aprile 2009 eravamo in piena emergenza. Negli Usa, oltre agli impegni sono stati messi anche i soldi. A Seul, come ho detto, bisognerebbe allargare la cooperazione anche all’ area dei cambi». Ma quali strumenti attiveranno questo framework? «Il Fondo innanzitutto. È stato chiesto al direttore generale Dominique Strauss-Kahn di formulare una nuova proposta di revisione della governance entro ottobre. C’ è quindi la voglia di agire in tempi rapidi». Eppure qualche anno fa erano in molti a volerlo chiudere l’ Fmi. «Sì, mi ricordo quando Strauss-Kahn nel gennaio del 2007 ci parlò del piano di licenziamenti. Da allora c’ è stata la crisi, il mondo è cambiato: l’ Fmi è un bel salvagente che non può essere buttato via».

Fonte: Corriere della Sera del 12 ottobre 2010

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