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“Sabato la svolta o mi dimetto”

La proposta di portare il numero delle deleghe da tre a cinque sta diventando l’argomento più importante dell’assemblea straordinaria di Bpm di sabato, perfino più del maxi aumento di capitale da 1200 milioni di euro.
A ragione, perché quella norma rimanda direttamente alla governance della Banca, e quindi alla causa prima dei suoi problemi congiunturali e strutturali. È per ragionare su questo tema che mi rivolgo ai soci di Bpm. Lo faccio quale unico consigliere indicato da Assogestioni. Questa rappresentanza, viene asserito, sarebbe testimonianza di una “speciale attenzione” verso gli investitori istituzionali: un’attenzione che quindi va usata. In Bpm si vota per testa, non per azioni possedute. La ratio della proposta, prevista dalla disciplina europea, sostenuta da Banca d’Italia e approvata dal consiglio di amministrazione, è che, aumentando il numero di deleghe che ciascun socio può raccogliere, aumenta il numero di azionisti che possono far valere i propri diritti senza venire personalmente in assemblea.
L’associazione “Amici di Bpm”, che raduna i soci dipendenti e che ha designato e nominato la maggioranza di questo consiglio di amministrazione, ha scritto una lettera ai suoi associati, invitandoli a respingere in assemblea la proposta. Ho dichiarato, e qui ribadisco, che ove l’assemblea rispingesse la proposta, mi dimetterei. Così sarebbe normale che facesse tutto il cda. Così fece poche settimane fa il consigliere Francesco Bianchi, quando fu respinta dalla maggioranza la precedente proposta di un aumento di 600 milioni, la metà di quella che verrà votata sabato. Domando agli “Amici di Bpm”: avete tenuto conto delle possibili conseguenze del vostro voto contrario? Ormai la parola commissariamento non è più un timore sussurrato, è un’eventualità gridata sulle prime pagine dei giornali: è così che ci si predispone a chiedere ai soci di mettere 324 milioni, in media 6.100 euro a testa per non diluirsi, e al mercato gli 876 milioni, per arrivare al totale di 1200 milioni?
Negli ultimi tre anni e mezzo, il settore bancario ha perso poco più del 60%, le banche popolari il 70%, Bpm oltre l’80% del suo valore. Il bilancio 2010 approvato dall’ultima assemblea parla chiaro quanto a utile in diminuzione, oneri operativi stazionari, indice di copertura ridotto, attività deteriorate aumentate. Le contestazioni di Banca d’Italia sono state largamente diffuse. In casi del genere, gli azionisti cambiano il management: da noi si è sostituito il direttore con il suo condirettore.
C’è un problema di governance. Il 73% del capitale della Banca è di proprietà di azionisti non soci, che non hanno diritto di voto; possono votare i 53mila soci, persone fisiche o giuridiche, che possiedono il 27% del capitale. Ma a controllare il voto in assemblea sono meno di 8.700 soci, con il 4% del capitale, organizzati nell’associazione Amici. Questa non solo elegge la maggioranza del consiglio, ma ha un improprio coinvolgimento nelle scelte gestionali. Delle piramidi con cui il nostro capitalismo con poco capitale esercita il controllo, si dice giustamente tutto il male possibile. Ma quanto a leva questo è un record. Con in più una fondamentale differenza. Che chi è al vertice di una piramide rischia l’azione di responsabilità dei soci, le sanzioni delle autorità di regolazione e di quelle giudiziarie. Qui i vertici dell’associazione Amici, che condizionano gli organi della la Banca, non corrono nessun rischio, neppure di sanzione.
La governance è il problema, non la cooperazione. È fuori luogo considerare l’aumento delle deleghe come un attacco alla cooperazione: perché questa non è più una cooperativa. È fuori luogo ragionare sui vantaggi sistemici di un assetto in cui banche ordinarie coesistono a fianco di banche cooperative: questa non lo è più. Non è una cooperativa quella in cui c’è un così macroscopico conflitto d’interesse tra chi ci ha messo i soldi, chi ci lavora, chi rappresenta chi ci lavora. Quando si sfida la logica, la logica si vendica: può avere la faccia del commissario, che qualcuno ha evocato, o del legislatore, che Draghi ha invocato, o di chi semplicemente non ci sta più a sentirsi chiedere soldi senza che nulla cambi. Al punto in cui siamo, non basterebbe più neppure un passo indietro: è la dimensione della Banca, la sua necessità di ricorrere in misura massiccia al mercato dei capitali a imporre una soluzione radicale.
Quando la partita è persa, bisogna cambiare il gioco: anche a costo di rovesciare il tavolo. Invece di subire l’iniziativa, le associazioni dovrebbero prenderla. C’è una soluzione, semplice da capire, rapida da attuare, fattibile senza leggi o permessi: trasformare la Banca in società per azioni, e fare della cooperativa il socio di riferimento. Un’autentica cooperativa, a cui i soci possono liberamente apportare le proprie azioni, che distribuisce al proprio interno gli utili secondo i principi cooperativi. Ci sono schemi più sofisticati, che permettono di assicurare, per dipendenti e clienti, le speciali condizioni che erano alla base della cooperazione. Questa cooperativa assumerebbe il ruolo di socio di riferimento, ancoraggio della stabilità proprietaria. Per questo, basta molto meno del 27% del capitale cui si arriverebbe se tutti i 53mila soci aderissero: anche con meno del 10% le fondazioni bancarie sono determinanti per gli assetti del sistema.
La Bpm ha un posizionamento geografico invidiato, ha storia, reputazione, personale, rete di vendita di prim’ordine. È diffusa l’opinione che, sol che si risolvessero i problemi di governance, la Banca potrebbe esprimere un valore di gran lunga maggiore dell’attuale. Che soci dipendenti e clienti debbano vedere squagliarsi il proprio capitale, mettere mani al portafoglio per non diluirsi, constatare la perdita di reputazione e di posizionamento sul mercato della loro Banca, è oltretutto una profonda ingiustizia.

Fonte: Sole 24 Ore del 22 giugno 2011

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