di Fabrizio Onida
Un provocatorio e – come sempre – graffiante articolo di Thomas L. Friedman sul New York Times del 28 novembre segnala il timore che le tensioni diplomatico-commerciali USA-Cina, culminate lo scorso maggio nell’inserimento del gigante elettronico Huawey nella “Entity list” USA dei sorvegliati speciali in materia di sicurezza digitale e rischio di spionaggio, preparino la costruzione di un “secondo muro di Berlino digitale”. Una iniziativa di Trump che metterebbe a serio rischio quella ricerca di un assetto geo-politico di cooperazione pacifica tra Occidente e Oriente che il mondo civile insegue dopo il crollo del primo muro nel 1989.
Al di là di una certa enfasi giornalistica, non sfugge ormai che da tempo si è aperta una sfida immane fra USA e Cina nella difesa-conquista di una leadership del dominio del ciberspazio. Un’analisi stringente di Adam Segal (Council of Foreign Relations) documentava su Foreign Affairs dell’agosto 2018 la frenetica corsa cinese verso la padronanza della scienza e delle tecnologie nelle aree più avanzate e strategiche come i semiconduttori, il quantum computing, il 5G e l’Intelligenza artificiale, mobilitando la domanda di giganti commerciali come Tencent, Ababa, ZTE e Baidu. In opposizione alla visione americana di un Internet globale e aperto, nella visione di Xi Jinping la Cina mirerebbe a costruire un mondo di “Internet nazionali” tra loro comunicanti ma sotto rigoroso controllo dei rispettivi governi tramite regolazioni, filtri informatici e standards nazionali.
Difficile per ora valutare quanto plausibile o velleitario sia questo disegno, ma restano impressionanti negli ultimi vent’anni la velocità e la potenza dell’inseguimento cinese in termini di spesa nazionale in R&S (oggi più di $230 miliardi, cioè 20% della spesa mondiale in R&S), pubblicazioni scientifiche (che nel 2018 hanno superato in numero quelle statunitensi), numero di brevetti, numero di laureati in ingegneria e scienze, numero di studenti cinesi ammessi nelle migliori università americane ed europee. Più di 1000 miliardi di investimenti infrastrutturali in 64 aree emergenti – dall’Asia orientale all’Africa al Golfo Persico e all’Europa – puntano a costruire una “via digitale della seta” fatta di fibra ottica, stazioni satellitari, reti mobili e città intelligenti. Nel 2016 la Cina ha importato circuiti integrati per quasi $200 miliardi, più di quanto speso per importare petrolio e gas.
L’Europa non può stare a guardare, ma la strada della guerra commerciale e della protezione dagli investimenti diretti esteri non sembra percorribile. Viviamo infatti in un mondo in cui – come documentano molti studi basati su matrici dettagliate degli scambi internazionali (es. il WP del FMI 19/18)– la crescita dell’occupazione e della produttività dipende sempre più dal consolidamento delle “catene del valore” lungo processi produttivi e distributivi che rendono tra loro interdipendenti regioni e paesi. Il settore dei semiconduttori è un caso di specie: come ricordava il briefing “Chipmaking” dell’Economist del 1 dicembre 2018, un’impresa protagonista dell’americana Semiconductor Industry Association si serve presso 16.000 fornitori, di cui 8500 al di fuori degli USA, spesso passando da catene che fanno capo a gruppi operanti da tempo in Giappone, Hong Kong, Taiwan, Sud Corea, Israele e altri paesi. Il progetto “Made in China 2025 prevede che i ricavi dell’industria domestica di semiconduttori crescano dai 65 miliardi dollari del 2016 a 305 miliardi portandosi da un terzo alla quasi totalità della domanda interna.
Contrariamente a quanto promesso da ricorrenti ed effimere emersioni di simpatie autarchiche, da tempo la buona teoria economica ha evidenziato che sviluppo economico, specializzazione produttiva, innovazione tecnologica e internazionalizzazione sono fenomeni strettamente intrecciati nella storia. Oggi in particolare la dinamica dirompente delle nuove tecnologie mina alla base il potere dei nazionalismi, passando attraverso la circolazione tra paesi delle persone e dei servizi che costituiscono il capitale umano dello sviluppo.
Nelle parole di T. Friedman, “la Cina è il nostro competitore e partner economico, sorgente di talenti e di capitale, rivale geopolitico, collaboratore e attore che sconvolge le regole del gioco. Non è nostro nemico, né nostro amico”. Parole che riprendono un editoriale del Financial Times del 10 novembre il quale, citando un allarme lanciato da Macron sulla fragilità geopolitica dell’Europa, si augura che l’Europa agisca da “balancing power”, con un approccio unitario e strategico alla Cina vista come “rivale sistemico” da battere promuovendo ricerca, concorrenza e apertura dei mercati.
Fonte: Sole24Ore, 5 dicembre 2019