• venerdì , 22 Novembre 2024

Ritorna il partito della patrimoniale

Riecco l’idea di tassare le rendite. Tra eufemismi e falsi pudori da Amato a Tosi, da Casini all’Unità, dai sindacati ai banchieri, piace la tassa che non funzionò nemmeno nel ’92, poi venne la stangata
Il revival porta la firma (anzi il volto e le parole) di Giuliano Amato, padre nobile dell’imposta patrimoniale. Solo che questa volta non bisogna chiamarla così. “Parlerei piuttosto di una tassa sulla ricchezza – spiega giovedì 21 all’ultima puntata di “Ballarò” – Non si tratta di far pagare il possesso. Insomma, non mi interessa tassare la proprietà dello yacht, ma chi lo usa dimostrando la propria opulenza. Naturalmente come extrema ratio, se non cresciamo abbastanza. Perché la Banca mondiale dice che l’Italia produce il tre per cento del prodotto lordo mondiale, ma possiede il 5,7 per cento della ricchezza. E l’80 per cento di essa è nelle mani di una ristretta minoranza”. Ad ascoltare compunto i sottili ragionamenti del Dottor Sottile, c’è Giovanni Floris con tutto il circo che egli conduce da abile domatore. Sembra quasi una quarta camera, visto che la terza resta pur sempre quella di Bruno Vespa, nonostante negli ultimi tempi si dedichi a ben altre camere (oscure, mortuarie o, vivaddio, anche da letto). Non manca il conflitto, ma, sotto sotto, anche quel consenso trasversale che fa il successo dei talk show politici. Agli spettatori, così, viene servito un antipasto del piattino che il governo dovrà cucinare domani. Manovra da 47 miliardi di euro e delega fiscale che Giulio Tremonti ha chiesto per ridurre a tre le aliquote Irpef (20, 30 e 40 per cento) invece delle cinque attuali, aumentare l’Iva di un punto, portare dal 12,5 al 20 per cento l’imposta sulle rendite (Bot esclusi), abolire l’Irap nel 2014 (una volta raggiunto il pareggio del bilancio), riordinare la giungla dei tributi che per la verità sembra farsi ogni giorno più fitta. Ieri è spuntato anche l’esoterico fissato-bollato, un vecchio arnese parzialmente abolito da Vincenzo Visco nel 1997 e cancellato dal Milleproroghe del 2007. In sostanza, una tassa sulle transazioni finanziarie pari allo 0,05 per cento che introduce alla vera svolta, quasi un cambio di paradigma, che vede protagonista lo stesso ministro dell’Economia.
Il fatto è che la patrimoniale (magari in versione blanda come quella in discussione in questi giorni) piace ai politici delle diverse casacche. Il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, in un’intervista al Messaggero dice: “Non escludo affatto una tassazione dei grandi patrimoni”. Il vispo sindaco di Verona, il leghista Flavio Tosi, ne ha tessuto le lodi, sempre a “Ballarò”, premettendo che “non è un discorso da comunista, ma una visione realista: ci sono i redditi e ci sono le rendite. I redditi devono essere tutelati, generano ricchezza perché sostengono i consumi delle famiglie e quindi contribuiscono alla crescita. E poi ci sono le rendite: questa è la ricchezza patrimoniale da tassare”. Una lecture che ha tolto il fiato anche a Maurizio Sacconi, combinando Henry Ford che vuol far comprare la modello T anche agli operai e John M. Keynes che vuole l’eutanasia del rentier.
La discussione, dunque, oggi è diversa da quella che ha occupato pagine e pagine di giornali tra gennaio e febbraio scorsi. Anche allora era stato Amato a lanciare il ballon d’essai, proponendo però una operazione straordinaria per ridurre lo stock di debito pubblico, attraverso una tassa concentrata sulla minoranza più ricca della popolazione. Una “botta secca” che porti il debito dall’attuale 120 per cento del pil all’80 per cento. Solo 30 mila euro sul 30 per cento più abbiente della popolazione, da pagarsi in due anni. “Che volete che sia? Il costo di una pizza per tre persone”, disse nel luglio del 1992 quando impose il 3 per mille sulla casa e il 6 per mille sui depositi bancari. Cosa sarebbe questa nuova imposta sulla ricchezza? Per Luigi Abete, banchiere, presidente della Bnl e dell’Assonime, l’associazione delle società per azioni, “basta l’uno per mille per racimolare nove miliardi l’anno”. Secondo l’economista Nicola Cacace, vecchio socialista, è una versione “più di destra” perché applicata in modo diffuso e indifferenziato su una ricchezza totale calcolabile attorno agli 8.600 miliardi. Lo stesso Abete si ritrae pudico e la chiama Ctc, contributo per trasparenza e crescita; anche se non è l’unico banchiere a esporsi in tal senso: l’amministratore delegato di Intesa, Corrado Passera, si è detto “favorevole ad aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie”. Una variante di sinistra è stata avanzata dalla Cgil che la vuole applicare solo ai redditi superiori a 800 mila euro con un gettito di 15 miliardi. “Si tratta – spiega Cacace sull’Unità – di una imposta da 5.000 a 20 mila euro a famiglia sui due milioni di famiglie super ricche che non impoverirebbe nessuno”. Sempre che le famiglie super ricche non dichiarino redditi superbassi, perché traggono buona parte dei loro guadagni da imprese e capitali, utilizzando le scappatoie consentite da una legislazione fiscale fitta come la foresta amazzonica. Il Pd è d’accordo, in sostanza, con la proposta Tremonti sulle rendite finanziarie senza titoli di stato, ma vuole abbassare alla stessa quota del 20 per cento quella sui conti correnti. Il gettito è esiguo, meno di un miliardo. La destra un tempo sociale, batte su tasti simili alla sinistra un tempo radicale. “Ridurre l’Irap con una intelligente tassazione delle rendite finanziarie”, propone Alemanno. La Polverini, governatrice del Lazio, parla di far pagare i più ricchi, come proclamava alla testa dell’Ugl. La Cisl e la Uil, ça va sans dire, sono da sempre contro i rentier. Anche se, in realtà, tutte queste proposte non colpiscono tanto i patrimoni, quanto il risparmio privato, lo stesso che ha aiutato a tamponare la grande crisi. Altro che meno tasse. Nuove tasse e sempre più confuse. Prendiamo il federalismo fiscale. Le prime 31 province hanno aumentato l’addizionale sulla Rc auto dal 12,5 al 16 per cento, le altre seguiranno. E i sindaci di 3.500 comuni entro fine mese possono deliberare un’addizionale sui redditi dello 0,2 per cento.
Mentre Avezzano ed Empoli hanno già deciso una sovrattassa Irpef. Insomma, il nuovo sistema decentrato esordisce con una scarica di legnate sui contribuenti. E se, invece, cominciassimo a togliere qualcosa? “I tanti sussidi alle imprese sono inutili e persino dannosi”, incalza Roberto Perotti sul Sole 24 Ore. La Banca d’Italia stima che siano stati erogati nel periodo 2000-2007 ben 53 miliardi in 88 interventi nazionali. Più di un terzo sono agevolazioni nelle aree depresse. Ma poi c’è la pioggia dei provvedimenti locali, territoriali (con i celebri patti), regionali, delle leggine ad hoc, dei finanziamenti a fondo perduto che, come evoca la parola stessa, per lo più sono clientelari. La loro efficacia? “Modesta nello stimolare investimenti aggiuntivi”, dice Bankitalia (e quindi nel creare posti di lavoro). Dunque, se fossero tagliati, alla produzione e all’occupazione non succederebbe nulla o quasi; mentre potrebbero liberare risorse per finanziare davvero una riduzione di quelle imposte che mettono le aziende italiane fuori mercato. Scrive sul Corriere della Sera Francesco Giavazzi: “La pressione per le imprese italiane è pari al 43 per cento contro il 26 per cento della Francia”. I dati si riferiscono al 2008, prima della crisi, ma dopo le cose non sono migliorate, anzi. La stima viene da una ricerca della Banca d’Italia compiuta su settori omogenei in due aree comparabili come il lombardo-veneto e la regione Rodano-Alpi. Si tratta di uno squilibrio competitivo a favore dei francesi, l’equivalente via fisco di una svalutazione del 23 per cento.
In molti, tra i quali Mario Draghi, evocano l’Italia del 1992, come success story in politica economica. Vale la pena ricordare che la patrimoniale finanziaria imposta l’11 luglio, portò solo 5.600 miliardi di lire nelle casse dello stato. I mercati la interpretarono come un pasticcio tipico di chi è alla canna del gas, gli attacchi alla lira continuarono, provocando una perdita di riserve da 48 miliardi di dollari in tre mesi. Il 16 settembre venne sospeso il cambio. Il giorno dopo il governo decise la mega stangata. Amato ha ricordato a “Ballarò” che fece tutto “senza nemmeno un’ora di sciopero generale”. Costò due anni di recessione, e solo grazie a una svalutazione della moneta pari a un terzo l’economia si riprese tra il 1994 e il 1995, trainata dalle esportazioni. Lo scrivono fior di storici dell’economia, di scuola diversa come Michele Fratianni, Franco Spinelli e Pierluigi Ciocca. Oggi la lira non c’è più; l’euro non si può svalutare unilateralmente. In compenso, i 45 miliardi di euro (equivalenti all’ammontare della stangata Amato) sono spalmati su tre anni, quindi ci sarà tempo per assorbirli. E il paese, nonostante la botta dal 2008 in poi, è più ricco di allora. La Banca d’Italia stima che, crescendo del due per cento l’anno, sarà possibile portare in pareggio il bilancio dello stato senza pesanti sacrifici. Oggi il prodotto lordo aumenta in media dell’uno per cento. Bisogna, dunque, accelerare il passo, anzi raddoppiare la cadenza. Hic Rodhus hic salta.

Fonte: Il Foglio del 29 giugno 2011

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