La buona notizia è che il governo ha deciso di accelerare i tempi e di varare nell’arco di una decina di giorni gli attesi provvedimenti sul lavoro. La brutta è che dovendo prevedere misure a costo zero l’esecutivo guidato da Mario Monti non riesce ad offrire a sindacati e industriali i termini per costruire un nuovo scambio. Da qui la turbolenza della tarda serata di ieri (Raffaele Bonanni ha parlato di «ecatombe sociale») sulle questioni legate alla tutela dei lavoratori messi in mobilità dopo un processo di ristrutturazione. È presto per capire se queste incongruenze risulteranno decisive, certo è che la tela che porta all’accordo appare fragile.
Per come si vanno delineando i provvedimenti si dovrebbero basare su tre punti-chiave: riordino dei contratti con piena valorizzazione dell’apprendistato, semplificazione degli ammortizzatori sociali con la loro estensione, ridimensionamento dei poteri di veto dell’articolo 18. Senza voler sminuire affatto l’operato del governo che – va ricordato – ha dovuto mettere d’accordo posizioni distanti tra loro, è chiaro come si tratti di una «riformetta». Un vero cambio di paradigma, che avesse conservato intatta l’ambizione di riscrivere le regole del mercato del lavoro in senso universalistico, si sarebbe dovuto basare sull’unica ricetta organica avanzata in questi mesi, la flexsecurity.
Siamo però in recessione ed è difficile pensare di ricollocare in tempi brevi i lavoratori in esubero dalle riorganizzazioni aziendali, come purtroppo dimostra il caso Electrolux che pure responsabilizzava l’impresa e prevedeva servizi di outplacement. I sindacati e la Confindustria hanno avuto quindi buon gioco nel sottolineare il rischio di un salto nel buio nella fase che sarebbe passata tra abolizione delle vecchie tutele e partenza del nuovo sistema, almeno nelle modalità inizialmente proposte da Elsa Fornero. È dai tempi della commissione Onofri della metà degli anni 90 che l’obiettivo del riequilibrio delle chance tra garantiti e non garantiti e di una più equa distribuzione delle risorse del welfare è sul tappeto e sicuramente quelle di oggi non sono le condizioni economiche più agevoli per condurlo in porto.
Su un terreno più politico e soggettivo non va dimenticato come il vero blitz il governo Monti lo abbia fatto scattare con il completamento della riforma previdenziale e questa consapevolezza, unita al calo dello spread, sembrerebbe aver reso meno necessario un «momento Thatcher», una rottura verticale con le parti sociali. L’Europa non ci chiede «lo scalpo» dei sindacati, per usare la colorita espressione di Susanna Camusso, ma provvedimenti coerenti sì. Proprio per questo motivo i passaggi che ci attendono da qui ai prossimi dieci giorni saranno decisivi. Questa volta non tanto per i mercati finanziari ma per quelle aziende straniere dell’economia reale che hanno depennato l’Italia dalla lista delle loro priorità di investimento e che invece dobbiamo far tornare a credere nel nostro sistema. Loro, per prime, non capirebbero un governo che si arrende ai veti.
Riforme senza veli
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