• domenica , 24 Novembre 2024

Referendum:un sì che potrebbe costare caro alle nostre industrie

Perché l’Italia rischia di pagare un costo altissimo.
Ma quanto ci costano i referendum per i quali oggi e domani siamo chiamati alle urne sotto la pressione del ricatto morale “o voti o sei un cattivo cittadino”? No, non sto parlando della spesa da sostenere – che comunque si aggira intorno ai 400 milioni – ma dell’impatto che avranno su un’economia già debilitata da una recessione prolungata e da una ripresa senza benzina. E’ bene sapere che la posta è alta, e che si decide un pezzo di futuro dell’Italia.
Partiamo dal nucleare: se dovesse passare il Sì non solo diremmo addio per sempre alla sperimentazione sull’atomo – perdendo un treno su cui tutto il mondo, pur con le dovute cautele, sta continuando a viaggiare – ma rinunceremmo anche a notevoli investimenti e relativi posti di lavoro. Infatti, per far partire quattro reattori Epr, Enel prevedeva di spendere circa 18 miliardi, e considerato che ogni centrale nucleare impiega, soltanto per essere costruita, circa 3 mila persone per 4-6 anni, con tutto l’indotto, si superano i 10 mila lavoratori a centrale. Conti non si dispererebbe in caso di vittoria del Sì, perché ha già accordi con i francesi di Edf, soci nella “Sviluppo Nucleare Italia”, per fare altrove quello che non si farebbe più qui, e lo stesso farebbe Zampini di Ansaldo Energia, pronto a costruire impianti atomici da 100 megawatt in giro per il mondo. Ma questo non vuol dire che per il “sistema Italia”, che soffre di scarsa capacità competitiva anche per il costo dell’energia più alto rispetto a chi ha il nucleare, sarebbe una clamorosa occasione sprecata.
Vicenda acqua. Dal palco di “Roma InConTra” sia Bazzano di Federutility, che Staderini di Acea e Gamberale di F2i hanno sostenuto che il sistema idrico italiano avrebbe bisogno nei prossimi dieci anni di investimenti monstre (minimo 40 miliardi, ma si parla anche 100-120) per essere portato su standard qualitativi accettabili. Il che vorrebbe dire, rispetto alla status quo: non sprecare il 40% dell’acqua nel passaggio acquedotto-rubinetto; dare al 15% degli italiani un sistema fognario adeguato; consentire ad un terzo degli abitanti di contare su un sistema di depurazione delle acque reflue. Visto che attualmente per le reti si spende a fatica un miliardo l’anno, è pensabile che il “pubblico” – detentore del 97% dei servizi idrici integrati – metta mano al portafoglio? Assolutamente no, a meno di non aumentare tariffe e tasse. Allora perché chiudere le porte all’intervento privato? Il secondo quesito sull’acqua obietta che i privati entrerebbero solo se avessero la possibilità di remunerare il proprio capitale. Ma perché, quale è l’azienda che non lavora per il profitto? Finora solo quelle pubbliche a cui le perdite le paga “pantalone”. Peraltro, l’Ue prevede espressamente il “full cost recovery”, ovvero che la tariffa copra tutte le componenti di costo, compresi i capitali impiegati per nuovi investimenti. Se ci dovesse essere il quorum e vincere il Sì, non solo condanneremmo il nostro sistema idrico a rimanere deficitario, ma andremmo a punire alcune delle più significative realtà imprenditoriali italiana (spesso quotate in Borsa come Acea, Iren, Hera, A2A, ecc.). Insomma, se domani alle 15 scoprissimo che il quorum è stato raggiunto e che dunque i Sì hanno avuto la meglio, ci troveremmo con una politica industriale ulteriormente depauperata.Il che non sarebbe una novità,ma una drammatica conferma.

Fonte: Il Messaggero del 12 giugno 2011

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