• domenica , 22 Dicembre 2024

Reddito di cittadinanza e flat tax: quante illusioni

di Giuliano Cazzola

Il reddito di cittadinanza e la flat tax sono le grandi promesse con cui i Cinque Stelle e la Lega hanno vinto le elezioni ma realizzarle è tutt’altro che semplice e il rischio di un vero e proprio boomerang è dietro l’angolo: ecco perchè

Il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. Il proverbio vale anche nel caso di un eventuale programma di governo che tenga insieme il M5S e la Lega: una soluzione tutto sommato non solo probabile ma anche auspicabile perché rappresenta il modo più veloce per liberarci di questa strana maggioranza i cui atti manderanno, nel giro di pochi mesi, gli italiani a fare la fila davanti ai bancomat per prelevare i 50 euro quotidiani consentiti pro capite.

Mettiamo che in tale programma si trovi il modo di combinare insieme i due “cavalli di battaglia” (il reddito di cittadinanza e la flat tax) che hanno condotto alla vittoria (almeno così dicono gli analisti) le forze populiste, ad avviso di chi scrive non sarà sufficiente risolvere solo il problema delle ingenti risorse da reperire. Nel dibattito non vengono affrontate le conseguenze pratiche che avrebbero queste misure nel contesto reale della società italiana e del mercato del lavoro.

Cominciamo dal reddito di cittadinanza. Ormai sono in tanti – convertiti sulla via di Damasco – che si affannano a spiegare che in realtà si tratta di un sostegno al reddito condizionato alla ricerca di un lavoro. In sostanza, una sorta di ornitorinco che ha insieme le caratteristiche di una misura prettamente assistenziale e di uno strumento di politica attiva del lavoro. Tanto che nella proposta “grillina” è previsto un potenziamento dei centri per l’impiego che, da noi, sono abbastanza sguarniti.

Un’indagine della Commissione lavoro della Camera, nella passata legislatura, mise in evidenza i grandi limiti attinenti all’effettiva capacità di intermediazione degli operatori in ragione della debolezza del sistema dei servizi per l’impiego, tanto sul versante pubblico quanto su quello privato: i servizi pubblici contribuiscono a collocare solo il 3,1 per cento dei nuovi lavoratori dipendenti, a fronte di una media europea del 9,4 per cento, mentre le agenzie private collocano circa lo 0,6 per cento dei nuovi lavoratori, contro una media europea pari a circa l’1,8 per cento. Gli osservatori, in primo luogo, sottolineano le problematiche di tipo organizzativo che caratterizzano il sistema dei servizi per l’impiego e, in generale, le politiche per il lavoro, rilevando, in particolare, il disallineamento esistente tra il sistema centralizzato dell’INPS, che paga i sussidi, e il sistema decentralizzato dei centri per l’impiego, deputato allo svolgimento delle politiche attive. Per non parlare del fatto che la mancata riforma costituzionale ha lasciato alle Regioni i poteri esclusivi in materia di politiche attive, vanificando in larga misura il disegno istitutivo dell’ANPAL.

Quale è allora il problema? E’ gestibile un’operazione tanto consistente sul piano economico (gli assegni sono molto elevati e crescenti in rapporto al nucleo familiare) connotata da una condizionalità molto lasca (in quanto i soggetti tutelati sono in grado di eludere le proposte di impiego) e da un apparato amministrativo inadeguato a dare esecuzione a quella stessa condizionalità, per di più in un Paese in cui si stimano esservi 3,5 milioni di lavoratori in nero? Si prenda a riferimento l’esperienza del Programma Garanzia giovani co-finanziato per un triennio a livello europeo e nazionale: al 30 settembre 2017 sono state 1.239.833 le registrazioni, al netto di tutte le cancellazioni di ufficio. Rispetto alle registrazioni, le prese in carico da parte dei servizi competenti sono risultate pari all’81,1%. Il 55% delle prese in carico si riferiva a giovani con un’età compresa nella fascia 19-24 anni, il 34,7% è rappresentato dagli over 25 e il restante 10,3% a giovani fino a 18 anni. Per quanto riguarda l’attuazione del programma, il 52,4% dei giovani presi in carico dai servizi è stato avviato ad un intervento di politica attiva. Quelli complessivamente erogati sono stati 573.076, di cui il 61,5% è rappresentato dal tirocinio extra-curriculare. Seguono gli incentivi occupazionali con il 21,2%. La formazione è il terzo percorso più diffuso (12,6%). Con riferimento ai soli interventi gestiti a livello nazionale, i volontari avviati al Servizio civile nazionale sono stati 7.974, impegnati soprattutto in progetti nell’ambito dell’Assistenza (45,7%) e dell’Educazione e promozione culturale (35%).

In “Crescere Imprenditori”, uno specifico sottoprogramma, sono stati 1.986 i giovani avviati al percorso di formazione finalizzato all’imprenditorialità. Il Fondo Selfiemployment ha ammesso a finanziamento 530 domande per l’avvio di impresa, impegnando il 17,2% del totale del Fondo rotativo. Rispetto agli incentivi occupazionali le assunzioni incentivate con il Bonus occupazionale sono state 63.858, quelle con il Super bonus 10.945 (la differenza tra le due forme di sussidio sta nel grado delle condizioni di svantaggio presentate dal giovane).

Per l’Incentivo “occupazione giovani” le domande di assunzione confermate sono state 46.763. Il 48,6% di coloro che hanno concluso un intervento risulta occupato e il 68,3% ha comunque avuto un’esperienza lavorativa alla conclusione dell’intervento stesso.

Questi dati – riferiti comunque, ad avviso di chi scrive, ad un’esperienza non negativa – mettono in evidenza le difficoltà che si incontrerebbero a gestire milioni di persone, garantendo loro un reddito di tutto rispetto mentre la formazione, l’inserimento o la ricollocazione al lavoro resterebbero nel dossier dei buoni propositi.

Peraltro, nel progetto del M5S è previsto un’eventuale integrazione – fino al livello stabilito per il reddito di cittadinanza – delle retribuzioni inferiori. Il che potrà dare adito a manovre truffaldine tra datori e lavoratori, mettendo una parte del salario a carico della collettività. I sostenitori della misura fanno notare che le pratiche illegali sono sanzionate duramente. Ma anche questo aspetto è incluso nella difficoltà pratica di gestire l’operazione. Non si dimentichi che, nel corso del 2017, i servizi ispettivi hanno denunciato 240mila situazioni lavorative irregolari, di cui 48mila totalmente in nero.

Venendo alla flat tax occorre fare alcune osservazioni, anche a prescindere dalla questione della progressività dell’imposizione fiscale come ribadito nella Costituzione. In proposito – al di là dell’evidente insostenibilità della proposta leghista – sono stati presentati progetti più seri (penso a quello dell’Istituto Bruno Leoni) che affidano all’imposta una funzione di razionalizzazione del sistema fiscale. A tal fine non solo sono previste sforbiciate alle forme di sconti fiscali previsti dall’ordinamento (per 54 miliardi di cui 40 miliardi a beneficio delle persone fisiche), ma anche significativi incrementi dell’Iva (al 25%), ferme restando le aliquote ridotte.

In sostanza, l’introduzione della flat tax non sarebbe un pranzo di gala dove tutti festeggiano, ma una redistribuzione del prelievo fiscale dal reddito ai consumi, con in più un allargamento della base imponibile. C’è poi un’altra riflessione da fare: il 60% del gettito Irpef è a carico dei contribuenti il cui reddito è tassato con l’aliquota del 38% e quelle superiori. Come la mettiamo se tale aliquota si riducesse, anche soltanto al 25%? E’ consigliabile, allora, agire con cautela e gradualità per non determinare squilibri tali da mandare a gambe all’aria i bilanci pubblici.

Fonte: da www.firstonline.info del 1 aprile 2018

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