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Ragioni per auspicare che la politica industriale resti “chiacchiera da bar”

Ragioni per auspicare che la politica industriale resti “chiacchiera da bar”

di Franco Debenedetti

Oggi, ha scritto Stefano Firpo sul Foglio in “Come evitare che la politica industriale rimanga chiacchiera da bar”, “è possibile disegnare un’azione di politica industriale senza che questo comporti un maggiore intervento dello stato nell’economia”. La “politica industriale” consisteva nello scegliere chi doveva giocare e vincere nella gara competitiva. Il governo era come l’allenatore della squadra di calcio, decideva lui chi giocava e chi no, e, dato che aveva buone relazioni con gli arbitri, chi vinceva e chi perdeva. Solo che in Champions si perdeva secco, e pure ci multavano. Adesso oltretutto avere una squadra è diventato troppo caro: invece che avere una squadra, il governo quindi fa lo sponsor, disposto a dare un po’ di soldi a tutti. O magari solo la domenica andare in tribuna a fare il tifo, e per tutta la settimana discutere con gli amici sulle scelte dell’allenatore: al bar.

Firpo elenca iniziative e interventi che dovrebbero essere attuati: da parte di chi? Son i privati che dovrebbero “scongelare gli investimenti” in settori prescelti dal governo; accordare “credito di imposta alla R&S e al patent box”, far sì che la legge di stabilità possa “muoversi lungo il solco dello stimolo agli investimenti e all’innovazione”? Sono loro che dovrebbero “disegnare una strategia complessiva” e “attivare un canale di intermediazione fra il risparmio di cui il nostro Paese ancora dispone e gli investimento in economia reale”? Firpo questi interrogativi non se li pone. Non si chiede perché l’Italia non si è ancora dotata di un modello di export banca forte. Non si chiede perché meno dell’1 per cento dei nostri risparmi in una cifra davvero imponente finanzi imprese non italiane: lo stato dovrebbe insegnare ai risparmiatori a fare meglio i loro interessi? Stesso discorso per gli imprenditori. Il governo ha dotato il paese di una “legislazione di avanguardia per sostenere e diffondere imprenditorialità innovativa”: ma bisogna proprio insegnargli tutto a questi imprenditori? La si sentiva arrivare, e alla fine ecco la parola magica: “filiere”. Dalla componentistica auto all’agroalimentare, dall’aerospazio alla distribuzione smart dell’energia, non lo ferma più nessuno: azienda pivot, Industry 4.0, “efficientamento incrementale”, per gestire intercettare anticipare integrare.

Ma non vorrei essere anch’io come i critici del bar, quindi mi permetto di dare un suggerimento al Direttore generale del ministero dello Sviluppo: legga l’editoriale del Foglio poco sotto il suo articolo, dove si parla della sentenza che ha decretato legittima Uber a New York. Quella dei taxi è una questione ad alto valore simbolico, da quando faceva parte delle lenzuolate di Bersani. Il Parlamento ha un parere dell’Autorità dei Trasporti che invita a prendere posizione in favore di una liberalizzazione dei servizi: il governo prenda l’iniziativa, sarebbe un’occasione per dimostrare nei fatti che è disposto a sopportare le proteste pur di dare un esempio di apertura all’“imprenditorialità innovativa”. Per azzardare un discorso più generale, piacerebbe leggerlo indicare gli ostacoli per cui i risparmiatori non investono, le filiere non si consolidano, i produttori non si muovono nei solchi. Perché a noi rimane un dubbio: che quei crediti di imposta, quegli stimoli, quelle “legislazioni per sostenere e diffondere”, abbiano effetti distorsivi sulle allocazioni delle risorse, inducano a muoversi per avere vantaggi dal regolatore più che per guadagnarsi successi sul mercato. Appartengano cioè ai problemi più che alle soluzioni. E che siano la prosecuzione della “politica industriale” con meno mezzi.

Ragion per cui, io, ad ogni buon conto, “politica industriale” continuo a scriverlo tra virgolette.

Fonte: IL FOGLIO, 18 Settembre 2015

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