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Quello strappo con la Fiat

Maggio in Italia è mese di relazioni e rapporti annuali. E capita che a ognuno di essi venga applicato il «governometro», la misurazione spannometrica delle distanze che intercorrono tra le parole del relatore e le scelte dell’esecutivo in carica. E’ accaduto con il presidente dell’Istat Enrico Giovannini e il rito si è ripetuto ieri con Emma Marcegaglia. Eppure la numero uno di Confindustria era stata esplicita: abbiamo buttato a mare un decennio e non solo l’ultima mezza legislatura. A risultare bocciato non è stato solo un governo ma il ciclo politico che va sotto il brand di Seconda Repubblica. Esecutivi che rinviano e non decidono, politica rissosa e invasiva, poteri di veto che sabotano i migliori progetti, municipalizzate che perdono soldi e non se ne curano, la cultura di mercato che continua a essere osteggiata. Se la Seconda Repubblica doveva modernizzare la democrazia italiana e creare nuovo rispetto tra politica ed economia, il rendiconto è negativo. Del resto se gli imprenditori sono costretti ancora a pietire elementari provvedimenti di semplificazione e si è dovuto inventare un ministero ad hoc, che bilancio volete che la Confindustria possa fare di questi anni?
Il giudizio impietoso di Marcegaglia sugli ultimi due lustri e la citazione di Max Weber sul dovere morale di fare testimonianza pubblica «anche fuori dalle nostre imprese» hanno rafforzato le indiscrezioni su un possibile impegno politico della presidente. Un’ipotesi auspicabile perché contribuirebbe alla rifondazione delle élite politiche e a un dialogo più maturo tra mercato e amministrazione ma che rappresenterebbe comunque una scelta individuale. Perché, a costo di formulare l’ovvio, vale la pena ribadire come la rappresentanza debba fare ogni sforzo per rendersi più autonoma dalla politica. Lasciate alle spalle le illusioni di poter finanziare la crescita con la spesa pubblica, le società intermedie sono chiamate a lagnarsi di meno e a responsabilizzarsi di più. A ricercare con convinzione tutte le occasioni per sussidiare la funzione dello Stato, a cominciare dall’internazionalizzazione del nostro sistema produttivo per proseguire con l’organizzazione di esperienze di secondo welfare. Se volete chiamatela pure Big Society ma a patto che il contenuto sia chiaro: la rappresentanza è chiamata a spendere il proprio capitale di credibilità con l’obiettivo di modernizzare il Paese e non certo per celebrare la propria autoreferenzialità. Anzi più le associazioni diverranno snelle più saranno in sintonia con lo spirito del tempo.
L’assemblea di ieri dell’associazione degli industriali sarà ricordata anche per lo strappo consumato con la Fiat davanti a tutti. Non ci sono soci di «serie A» e di «serie B», ha scandito la Marcegaglia ed è un bene che l’abbia fatto. La trasparenza è un valore della modernità. Da tempo sulle relazioni industriali tra Torino e Viale dell’Astronomia sono maturate idee diverse, anche perché obiettivamente i problemi dell’impresa globalizzata non sono quelli della stragrande maggioranza delle piccole, dove per fare comunità con i dipendenti non c’è bisogno di un referendum. In una stagione in cui tutto si specializza e si differenzia, persino le aspirine, non c’è niente da obiettare alla coesistenza di pratiche e modelli diversi: alla fine l’articolazione si potrà e dovrà rivelare una ricchezza e non il mero prodotto di uno scisma.

Fonte: Corriere della Sera del 27 maggio 2011

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