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Quelle concessioni senza privati

Lo scudo anti lodo, pare assodato, Tremonti né l’ha messo né l’ha letto. Ma l’articolo che aumenta a 100 anni il periodo di ammortamento fiscale delle opere pubbliche non può essergli sfuggito. Eppure esso ha, per l’immagine di Silvio Berlusconi, un effetto, certo non altrettanto eclatante, ma anch’esso devastante: perché, azzerando di fatto ogni ipotesi di coinvolgimento dei privati nella costruzione e nel finanziamento di infrastrutture, infrange uno dei capisaldi su cui ha costruito l’identità sua e del suo governo. La norma solleva dunque un interrogativo politico, che si aggiunge all’interrogativo sui suoi effetti economici, quali emergono da una pur semplificata analisi.
Per meglio spiegare: il costo di investimento sostenuto per beni che alla fine della concessione ritornano gratuitamente in possesso dello stato, deve essere ammortato durante la durata della concessione stessa. Se la concessione dura 20 anni, caso tipico, e il bene dà ricavi dal primo giorno della concessione, ogni anno un ventesimo del costo deve essere portato come posta negativa del conto economico. Se così non si facesse, il bilancio farebbe emergere utili falsi, e i dividendi distribuiti sarebbero in realtà pagati intaccando capitale e riserve.
La norma inserita nel decreto impone invece che la quota di ammortamento deducibile fiscalmente non possa essere superiore all’1% l’anno, come se la durata utile della concessione fosse di 100 anni. Si determina così una artificiosa crescita dell’utile fiscale, sul quale si paga l’IRES. Pertanto questa risulta non più un’ imposta sull’utile, ma sull’investimento, ed è tanto maggiore quanto più breve è il periodo di concessione. – perché minore è il numero degli anni per cui va diviso il costo.
Per i concessionari di opere già esistenti e funzionanti si tratta di un aumento sostanziale e fittizio del tasso di imposizione, dato che l’ammortamento è sovente la parte più rilevante dei costi. Questo altera sostanzialmente il flusso di cassa su cui si basa il merito di credito dell’impresa concessionaria, per cui la Lex Column del Financial Times subito prevede il declassamento del loro debito, con conseguente ulteriore aggravio sul conto economico, oltre alla fuga degli investitori. A ruota anche le banche che hanno fatto i prestiti dovranno modificare il profilo di rischio, e la norma fiscale finisce così, di contagio in contagio, per aumentare il rischio Paese.
In questo schema semplificato, non si tiene conto che in realtà i costi non sono sostenuti tutti nel momento della concessione, ma sono anche dovuti a opere incrementative, magari non previste, eseguite negli ultimi anni della concessione. Questa norma rende ancora più critica una caratteristica di tutte le opere per cui è prevista la restituzione gratuita, e cioè che avvicinandosi la fine della concessione, il concessionario cerca di ridurre al minimo gli interventi di manutenzione e miglioramento.
Se le opere sono state o solo progettate o appena iniziate, la cosa è più semplice. Più imposte, meno utili, merito di credito ridotto, interessi più alti, ancora meno utili. I calcoli finanziari e i contratti di finanziamento già conclusi o in via di conclusione su cui si reggeva l’operazione non quadrano più: si cancella l’opera. Tanto peggio per chi tra progetti, varianti, finanziamenti, CIPE e quant’altro, si è fatto vecchio. Ma assai peggio per chi, sulla pedemontana o sulla BreBeMi, contava di andarci in automobile lui, e non i suoi nipoti.
Nelle sue ultime Considerazioni Finali, il Governatore della Banca d’Italia rilevava che, secondo i programmi del Governo, l’incidenza della spesa per infrastrutture scenderebbe all’1,6 per cento nel 2012, dal 2,5 del 2009, mentre nell’area euro la spesa programmata per il 2012 è del 2,2 per cento del PIL, dal 2,8 del 2009. Il solo gettito IVA sui 15 miliardi delle opere da realizzare, e che con ogni probabilità non si realizzeranno più, vale 3 miliardi. Oltre al gettito fiscale sull’aumento del PIL che, dato il processo di selezione che le opere hanno subito negli anni, è certamente superiore a quello del loro costo.
A Palazzo Chigi c’è ancora un “signore” (come oggi ci si chiama tra ministri) che aveva vinto le elezioni disegnando su una tabella le opere che si impegnava a fare, prevedendo anche il dispositivo di legge capace di tagliare lungaggini burocratiche, divieti ricattatori, incertezze e costi. L’aveva chiamata legge “obbiettivo”. Più tardi, passando dall’immondizia di Napoli alle macerie de L’Aquila, aveva lanciato lo slogan “Governo del fare”.Difficile prevedere le evoluzioni dei rapporti politici, ma pericoloso non prevedere le ironie.

Fonte: Sole 24 ore del 9 luglio 2011

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