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Quel numero “7” di Marchionne che Rep. pare non capire

Sette per cento: quando si scriverà la storia della vicenda del contratto di Mirafiori e delle polemiche che l’hanno accompagnato, bisognerà ricordare la vicenda di questo numeretto. Menzionato da Marchionne, se ben ricordo, qualche anno fa in una presentazione all’Unione Industriali di Torino (allora era Termini Imerese al centro delle polemiche), ripresa adesso (azzardo: per primo da Luciano Gallino?), rimbalzata in autorevoli commenti, é riaffiorata perfino nella straordinaria intervista che Sergio Marchionne ha rilasciato a Ezio Mauro. Se “il lavoro” conta così poco, sembra essere il ragionamento, perché accanirsi tanto a ridurlo? Se la minaccia è la concorrenza di paesi dove il lavoro costa meno, proprio lì bisogna colpire, a costo di ridurre i nostri operai nelle condizioni di quelli cinesi?
Che cosa sia questo “sette percento” nessuno lo chiede. Tecnicamente è la componente lavoro del “primo costo variabile”, cioè quello direttamente impiegato nella produzione. Lavoro c’è anche nel restante 93%, lavoro di operai e impiegati, di indiretti di officina e di progettisti, di addetti a logistica e a manutenzione, ai servizi di fabbrica o al marketing. Lavoro c’è nei componenti acquistati (perlopiù nel territorio limitrofo). Ma il “primo costo variabile”, quello che pesa per il 7%, Marchionne non solo non lo diminuisce, ma lo aumenta, seppure leggermente. E’ stato in Volkswagen, non in Fiat, che i dipendenti hanno accettato una riduzione in busta paga pur di evitare la delocalizzazione.
Marchionne prende di mira il 93% fisso, che come una piramide rovesciata grava sul 7% variabile: tutto ciò che è stato speso (e che quindi va ammortato e finanziato) e che si deve continuare a spendere per produrre vetture. La sua incidenza sul costo del prodotto dipende dal numero delle vetture prodotte. Il piano di Marchionne mira a ridurre il costo del prodotto aumentando la produzione, (e la sua elasticità alla domanda, per ridurre costo del capitale delle vetture immobilizzate nei magazzini). Quanto alla produttività (rectius, totale dei fattori) cioè l’efficienza con cui vengono impiegati i fattori di produzione, dove come Paese abbiamo perso 20 punti rispetto alla Germania, giusto ricordare che la Fiat ha tanto da recuperare del suo: ma qui stiamo, e dato che questo richiede investimenti, se si riduce l’incidenza dei costi fissi, sarà possibile finanziarli.
In una audizione parlamentare negli anni 70, Giovanni Agnelli chiedeva di poter contare su una produzione pari al 75% della capacità installata, in cambio prometteva tremila appartamenti per gli immigrati del Sud. Allora fu Lucio Libertini ad accusarlo di sfruttamento, di turni orari e salari da fame, a non credere che l’azienda avesse forza finanziaria e prodotti per crescere nel mondo, ma dovesse concentrarsi nel pagare meglio e sfruttare meno i suoi operai in Italia. Allora a Mirafiori c’erano 50.000 operai e 3000 impiegati, oggi sono 5.000 in tutto. Gli strumenti retorici di fondo con cui il radicalismo eccezionalista di Mirafiori ha fatto subire ai lavoratori una sconfitta dopo l’altra e ha portato la Fiat sull’orlo dello baratro, non sono, da allora, fondamentalmente cambiati. Bisogna darne atto: il “sette percento” è, nel suo campo, una piccola innovazione.

Fonte: Il Foglio del 19 gennaio 2011

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