• venerdì , 27 Dicembre 2024

Quel che resta del quartierino

Chi lo conosce bene e ha lavorato con lui, giura che Stefano Ricucci è triste, non depresso. Legge le notizie sul nuovo cambio al vertice in Rcs, il rimescolamento tra gli azionisti, l’addio di Vittorio Colao, e si sente ancor più incompreso: «Nun me posso capacità – ripete -. Allora c‘avevo raggione io che volevo mette‘ er giornale in una Fondazione». Altro che Regina Coeli, pensa di meritarsi la Bocconi: ha capito che il Corsera era scalabile e lo ha mostrato, senza remore né rispetto, alla finanza italiana e internazionale (nessuno sa ancora con esattezza con chi si incontrava a Parigi, a parte Alejandro Agag, genero di José Maria Aznar). Un anno, è trascorso esattamente un anno dal momento in cui i «furbetti der quartierino» (ancora grazie a Ricucci per la franca e arguta definizione) sono stati sparati in prima pagina, parola per parola, sospiro dopo sospiro. Il 12 luglio 2005, la telefonata tra Fiorani e Fazio: «Ti bacerei in fronte», gli dice dopo che il governatore lo informa del via libera all’Opa su Antonveneta. Il 25 luglio, la catastrofe, con il sequestro delle azioni possedute dalla Popolare di Lodi e dai concertisti che l’avevano scalata. Il giorno dopo, Il Giornale spiattella le intercettazioni ordinate dai magistrati applicando per la prima volta le norme europee sul market abuse.

Dodici chili in meno, quattro ogni mese «ar gabbio», una forzata cura dimagrante che lo fa assomigliare a un personaggio pasoliniano (Sergio Citti è un mito e un amico), e Ricucci, sotto il tocco professionale di Anna Falchi, posa rassegnato, con un filo di tristezza e imbarazzo che gli impedisce di guardare l’obiettivo. Ha pianto in carcere l’ex odontotecnico di Zagarolo, si è disperato, poi ha mollato cominciando a collaborare con la giustizia. Ora rischia la totale bancarotta.

Il servizio di copertina su «Chi», insinuano i maligni, serve soprattutto a lei che, quando è uscito di prigione, il 14 luglio, lo ha accolto fugace per volare il giorno dopo a Riccione e far da madrina a un evento della Milano Young. Stefano ha trascorso il primo week end non nel suo nido d’amore vicino a villa Borghese, ma con Edoardo, 13 anni, il figlio della prima moglie, Linda Maria Imperatori, tornata dalle vacanze in Costa Smeralda. La bella Anna, nipote di un pastore luterano finlandese, con l’abitino leggero a fiori che la fa sembrare una ragazza, confessa a Maurizio Costanzo che la crisi è passata; il suo Stefano adesso ha bisogno di lei, come lei aveva bisogno di lui un anno fa, quando il 9 luglio si sposarono con festa grande all’Argentario. Era Lady Finanza. Tra loro si chiamavano Cenerentola e Gastone.

Pochi hanno visto Gianpiero Fiorani, ancor meno lo hanno sentito. Varca i cancelli della sua villa solo per firmare in questura, chiuso nel Suv con i vetri scuri. Al volante, la moglie Gloria. Bel Ami è tornato in famiglia. Nonostante 14 interrogatori nel carcere di San Vittore, i magistrati continuano a chiamarlo in procura. Chi suona il campanello di casa non trova risposta, ma, se è fortunato, una voce femminile dice: «Il dottore non vuole lasciare dichiarazioni». Fiorani aspetta, scuro in volto e nel cuore. La rabbia padana cova a lungo nelle nebbie, spesso non esplode, scava come una bomba sotterranea. Giovanni Consorte non si piega, combatte, protesta, lotta contro il male che lo ha preso alla gola e contro chi preferirebbe farlo scomparire per sempre. «Speravano di vedermi morto e invece sono qui», insiste dall’ufficio che gli è rimasto in via Stalingrado, a Bologna, perché l’amico e compagno Pierluigi Stefanini non lo ha abbandonato. Il 30 giugno scorso, il presidente di Unipol ha rilasciato una nota insieme al neo amministratore delegato, il banchiere Carlo Salvatori che viene da Unicredit: «Nessun rilievo è stato sollevato sulla gestione Consorte». Lo stesso giorno, all’ingegnere abruzzese e a Sacchetti, la magistratura sequestrava 43 milioni. Emilio Gnutti, detto Chicco, dopo l’ennesimo infarto, è stato costretto a uscire da Olimpia, espulso da Marco Tronchetti Provera. Per Hopa, la finanziaria che gestisce insieme ai suoi soci bresciani, la nave corsara usata in mille arrembaggi e nel grande assalto a Telecom Italia, il 2005 doveva essere un anno trionfale e invece s’è trasformato in un bagno di sangue. Addio Mille Miglia, la collezione di auto d’epoca arrugginisce in garage. Un mese fa, una tragedia quasi inverosimile: Stefano Bellaveglia, ex del Montepaschi che aveva sostituito Gnutti, è morto per una rara forma di malaria. Chicco ne è rimasto sconvolto, dicono gli amici, e da allora è convinto che una maledizione si sia abbattuta su di lui e sulla sua famiglia. Il figlio Thomas ha dovuto lasciare la Popolare di Lodi. Tocca alla signora Ornella vegliare su un equilibrio ormai sempre più precario.

Antonio Fazio lo si vede solo in chiesa. Arroccato in un silenzio risentito, incompreso dalla classe politica, combattuto dalla classe imprenditoriale (quella laica del nord con la quale non si sono mai amati). Ogni mattina, un po’ sul tardi, entra a villa Huffner, la dependance che gli è stata assegnata in via Nazionale. Non si è recato all’assemblea di Bankitalia che il 31 maggio ha segnato l’esordio di Mario Draghi. «Nessun intento polemico», ha fatto trapelare. Invece, non poteva perdere il 15 giugno, la messa per il Corpus Domini celebrata da papa Benedetto XVI a San Giovanni in Laterano. Seduto, silenzioso e compunto, accanto a Francesco Cossiga. Tanto meno, poteva mancare alla consacrazione di sua figlia Cristina tra i Legionari di Cristo nelle cui fila milita anche la mamma. Adesso si dice che attenda un riconoscimento superiore, sembra che per lui si prepari (anche se è stato confermato pro tempore Angelo Caloia) il posto al vertice dello Ior, la banca del Vaticano risanata a fatica dopo la catastrofe Marcinkus. E vengono in mente le parole della moglie Maria Cristina (colei che Fiorani chiamava «l‘aquilone») in un’intervista dell’estate scorsa: «Io rispondo solo davanti a Dio e alla mia famiglia». Fiorani, Ricucci, Consorte, Gnutti, Fazio: i cinque cavalieri dell’Apocalisse che per nove mesi hanno fatto tremare i santuari del capitalismo italiano. C’era qualche gran furbone a guidare le mani rapaci dei furbetti? Oggi, nonostante le tonnellate di carta, dossier, articoli e ordinanze, una risposta certa non si trova. Per dipanare l’intricata trama, c’è voluta (come sempre) una talpa, anzi un pentito. Il vero eroe della rovente estate 2005 si chiama Egidio Menclossi, ex dirigente della Bipielle Suisse, dependance elvetica della Banca popolare di Lodi. È lui che alla fine ha rivelato tutto a Guido Rossi, avvocato di Abn Amro, e a Francesco Greco il grande inquisitore delle malefatte finanziarie.

Il ragioniere di Codogno è rimasto invischiato nella tela di ragno che aveva costruito. E si è capito in che modo tre operazioni apparentemente distinte (Lodi-Antoveneta, Unipol-Bnl e Ricucci-Corsera) si intrecciavano tra loro con gli stessi protagonisti che si aiutavano a vicenda; a chi facevano capo i 38 soggetti che avevano acquistato il 22% di Antoveneta (18 a Gnutti, 12 a Fiorani, cinque a Ricucci e Danilo Coppola più tre trader) e come erano stati finanziati, carta su carta, dalla Popolare di Lodi. Si dice: la vera maledizione si chiama Corsera. Senza l’assalto a Fortezza Bastiani (Dino Buzzati, Il deserto dei tartari), Antonveneta oggi sarebbe nelle mani di Fiorani e Bnl in quelle di Consorte. Una banca alla destra e una alla sinistra (o meglio ai diessini). In realtà, il castello di carte era già caduto a Lodi, poi la scalata a via Solferino è diventata l’arma fine di mondo chiamando in campo la politica.

«Aridaje, dietro Ricucci c‘è Ricucci», insiste lui. La sua holding, fondata nel 1989, si chiama Magiste, acronimo di Matteo, Gina e Stefano, insomma la famigliola al completo. Il primo pacchetto di Rcs lo aveva comperato addirittura nell’autunno del 2003, anche se la corsa frenetica che lo porta a possedere il 20% comincia solo nell’inverno 2005. Pura speculazione (il titolo sale alle stelle e lo scalatore è convinto che possa valere oltre 8 euro), mania di grandezza, o l’ex odontotecnico è un uomo di paglia? Come ha fatto davvero i quattrini, non adesso, ma fin dagli anni ‘90? E chi lo manovra?

Tra i suoi consulenti durante la scalata troviamo Ubaldo Livolsi, ex amministratore delegato di Fininvest, che si è messo in proprio ma resta un finanziere di spicco dell’universo berlusconiano. Lui, il Cavaliere, giura di non saperne niente; quanto a Livolsi, fa solo il suo mestiere. È vero, la guerra aperta contro gli olandesi dell’Abn e gli spagnoli del Bilbao, è cominciata dopo il «patto dello sciacchetrà», quel pranzo del 14 gennaio 2005 a palazzo Chigi con Fazio, annaffiato con il vino da dessert delle Cinque Terre portato da Luigi Grillo, senatore di Forza Italia. E Fiorani, chou chou del governatore, diventa il «cavaliere bianco». È vero, Consorte aveva informato delle sue mosse i vertici diessini. «Abbiamo una banca», gli dirà Piero Fassino nella telefonata intercettata e poi pubblicata sempre dal Giornale. Mentre si continua a parlare di una conversazione con Massimo D’Alema che nessun giornale ha mai rivelato.

È vero, Fiorani stesso fa capire che c’era una sorta di divisione del lavoro: lui curava il centrodestra, Consorte il centrosinistra. E nel pieno della battaglia per il Corsera, giravano rumors su soci del patto che avrebbero potuto mollare mentre Romiti, ai primi di agosto, faceva capire di voler vendere la propria quota, con il titolo sopra sei euro. Sempre nello stesso periodo due esponenti della «razza mattona» come Danilo Coppola e Valerio Zunino entravano in Mediobanca. Mentre Sergio Billè, presidente di Confcommercio, berlusconiano doc, sosteneva Ricucci usando immobili e fondi della confederazione. Insomma, non tiene la leggenda dello scalatore solitario e non regge nemmeno la teoria delle convergenze parallele. Il concerto c’era, un concerto grosso in pieno stile barocco. Che cosa resta, a un anno di distanza? Tutti i fili stanno davanti a noi, però una trama convincente ancora manca. La rotta dei furbetti ha lasciato molte macerie, ma il vero terremoto è solo cominciato.

La Bnl è finita ai francesi di Bnp Paribas che la fonderanno con la loro filiale italiana. Per la Bpi (ex Lodi), una volta messi in ordine i conti, si è fatta avanti la Banca Popolare di Milano (con l’aiuto dei soci francesi del Crédit Mutuel). Antonveneta è di Abn Amro. Unipol resta in mezzo al guado. Dopo la forsennata corsa cominciata nel 1999 con la scalata di Colaninno e Gnutti a Telecom, si guarda attorno: troppo piccola tra le grandi e troppo grande tra le piccole. Il Corsera è in un equilibrio mobile con l’ingresso di Benetton e Toti (immobiliarista romano azionista di Capitalia, estraneo al giro dei furbetti), fuori dal patto di sindacato in attesa che i soci forti decidano il da farsi. Cesare Romiti è ancora lì perché il titolo, gonfiato dalla scalata, adesso langue. Rcs è il gran salotto della finanza del nord, dopo che l’era Mediobanca è al tramonto. Ma può far da salotto una società editoriale che deve competere ogni giorno con concorrenti come Mondadori ed Espresso, soffrendo di non avere nessuno sbocco multimediale e soprattutto in tv? Evidentemente no e il continuo cambio di top manager lo dimostra.

L’uscita di Gnutti da Olimpia, seguita poi da Unicredit e Intesa, fa mancare alla holding che controlla Telecom puntelli importanti. Pirelli da sola non ce la fa e i Benetton hanno altri progetti. Così, all’alba dell’era Unionista, il destino del campione nazionale delle telecomunicazioni è il grande rebus del capitalismo italiano. Di nuovo. Tutto comincia con Telecom. Nella scalata del 1999, si incrociarono per la prima volta i protagonisti, compreso Ricucci che aveva investito grosse cifre in Olivetti e Tecnost durante il più grande leveraged buyout della storia d’Italia. E tutto riconduce a Telecom. Friederich Nietzsche l’avrebbe chiamato l’eterno ritorno.

Fonte: La Stampa del 24 luglio 2006

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