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Quando Belzebù chiamò i giudici

«Chi ha salvato la Banca d’Italia in quei difficili frangenti è stato Giulio Andreotti». Giuseppe Guarino, 88 anni, docente universitario e avvocato, ministro delle Finanze nel governo Fanfani del 1987 e dell’Industria nel governo Amato del 1992, legato alla Banca d’Italia dal 1960 come consulente e poi come componente del collegio sindacale, non ha paura di mettere in crisi le ricostruzioni storiche di una brutta vicenda. Tra il 1978 e il 1980 alcuni magistrati lanciarono un attacco mirato al cuore della Banca d’Italia e in particolare al governatore di allora Paolo Baffi e al vicedirettore generale Mario Sarcinelli, responsabile della vigilanza sulle banche.
Antonio Alibrandi e Luciano Infelisi li accusarono di aver chiuso gli occhi sui prestiti concessi al gruppo chimico Sir di Nino Rovelli dall’Imi e dal Credito industriale sardo, due banche specializzate nei finanziamenti all’industria. In realtà dietro quelle accuse si celava l’obiettivo di fermare un’istituzione e i due uomini coraggiosi che la guidavano. Perché erano loro a ostacolare i disegni criminali di Michele Sindona, di Roberto Calvi e del suo Banco ambrosiano, dei fratelli Caltagirone (Gaetano, Camillo e Francesco Bellavista) impegnati nella spoliazione dell’Iccri.
E chi proteggeva Sindona, Calvi,i Caltagirone?Andreotti. Con il fido Franco Evangelisti che veniva mandato in avanscoperta a verificare quali possibilità esistevano di conciliare i desideri degli “amici” con il rispetto delle regole. Andreotti era, ed è, considerato Belzebù, tutore d’interessi illeciti, spesso di origine malavitosa e spesso con agganci misteriosi alla finanza vaticana.
Fin qui la “saggezza convenzionale”. Proprio in questi giorni è stato pubblicato un volume patrocinato dalla Cgil: In difesa dello stato, al servizio del paese, curato da Giuseppe Amari della Fondazione Di Vittorio, che racconta le battaglie di Baffi e Sarcinelli, ma anche di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche di Sindona assassinato da un killer assoldato dal finanziere siciliano, di Silvio Novembre, l’ufficiale della Guardia di finanza braccio destro di Ambrosoli, e di Tina Anselmi, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2. Guarino ha contribuito con una testimonianza inedita abbastanza sorprendente.
Il professore racconta di quando fu coinvolto informalmente nella difesa di Baffi e Sarcinelli. E arriva al 5 aprile 1979, giorno in cui Alibrandi concesse a Sarcinelli, che era stato arrestato, la libertà provvisoria. «Libertà sì, ma intrisa di veleno – nota Guarino –. Il giudice aveva concesso la libertà provvisoria. Ma avrebbe disposto la sospensione dai pubblici uffici. La misura riguardava formalmente Sarcinelli, ma colpiva anche Baffi, le cui imputazioni erano identiche a quelle di Sarcinelli. Il governatore veniva di fatto delegittimato. La reazione pubblica, quella dei circoli accademici, dei più autorevoli quotidiani, delle più accreditate istituzioni finanziarie fu d’indignazione e sconcerto. Alibrandi, con pervicacia e assoluta sconsideratezza, minava l’autorità e il prestigio della banca centrale e del suo governatore, nello stesso momento in cui Baffi, con piena delega del governo, rappresentava il paese nella difficile trattativa avente ad oggetto il Sistema monetario europeo (Sme), preludio della costituenda Unione monetaria. Baffi trattava direttamente, in nome dell’Italia con capi di stato e di governo, oltre che con banchieri centrali. Godeva della più alta considerazione».
Il ministro del Tesoro era Filippo Maria Pandolfi (dc) che difese sempre con fermezza la Banca d’Italia. Guarino tuttavia capì che non sarebbe bastato il soccorso di Pandolfi per uscire da quella situazione pericolosa. Tommaso Morlino, un altro dc che era ministro della Giustizia, suggerì ad Andreotti di esaminare personalmente il caso. E il presidente accettò il consiglio: nel giro di tre ore incontrò di persona Nino Andreatta, l’economista che allora era responsabile economico della dc, Sarcinelli, Baffi e infine lo stesso Guarino, tutti riuniti, tra un incontro e l’altro, nello studio del professore di piazza Borghese.
«Uscito dal colloquio con Andreotti – racconta il professore – Andreatta mi chiamò: “Quel serpente (testuale!) mi ha convinto che, nei limiti dei suoi poteri, non vi è nulla che possa fare”». Poi fu la volta di Sarcinelli e Baffi: entrambi tornarono scuri in volto. «Un’ombra di tristezza profonda – ricorda Guarino – oscurava il suo (di Baffi, ndr) volto, già di per sé severo».
A quel punto toccava al professore che non si era mai trovato a tu per tu con Andreotti. Che esordì: «Ci dica lei cosa possiamo fare. Ci stiamo girando attorno, ma non riusciamo a trovare la soluzione». Guarino rispose in modo diretto, rischiando d’irritare il suo interlocutore. «L’attacco alla Banca d’Italia – disse – viene fatto risalire a tre ispiratori, se non propriamente mandanti, Rovelli, Gelli, Sindona. Lei è al governo da sempre. Ha conosciuto ed è dovuto venire a contatto con tutti. Lei viene comunemente indicato come referente politico dei tre personaggi».
«Lei, presidente – proseguì Guarino –, può non aver presente che il 3 giugno prossimo si terranno le elezioni politiche. Il 31 maggio si terrà l’assemblea generale della Banca d’Italia. In quel giorno, conoscendo Baffi, sono certo che il governatore, ove non veda seduto accanto a sé anche Sarcinelli al tavolo del direttorio, darà le dimissioni in assemblea. E con lui tutto il direttorio. Lei, preso da altri e non meno gravi problemi politici, può aver sottovalutato l’impatto della questione sull’opinione pubblica. La sensazione che sia in atto una vera e propria aggressione, di origine oscura, nei confronti dell’Istituto è diffusa. Baffi è persona dai costumi integerrimi. La Banca d’Italia, da Stringher in poi, gode di un prestigio massimo in Italia e anche tra le istituzioni finanziarie internazionali. Né Baffi potrebbe non dare le dimissioni perché l’interdizione dai pubblici uffici disposta dal giudice per Sarcinelli, in modo indiretto ma certo, colpisce anche Baffi. I riflessi delle dimissioni date dal direttorio in assemblea sarebbero non inferiori a quelle dell’affaire Dreyfus nella Francia ottocentesca. Lei ne subirebbe il riflesso nelle elezioni. Un risultato negativo potrebbe compromettere tutto il suo futuro politico».
Anziché mettere alla porta l’interlocutore, Andreotti domandò: «E Ciampi?». Carlo Azeglio Ciampi, a quel tempo, era direttore generale della Banca d’Italia. Se non avesse dato le dimissioni e avesse accettato di subentrare a Baffi come governatore – annota Guarino – la questione sarebbe svanita e la Banca sarebbe tornata alla normalità.
Guarino rispose deciso: «Credo di conoscere bene Ciampi. Se Baffi si dimettesse in assemblea, seduta stante lo farebbe anche Ciampi». Il senso di quella frase era chiaro: Alibrandi doveva revocare, subito, il provvedimento d’interdizione dagli uffici pubblici. Già, ma come si sarebbe potuto ottenere quel risultato? Guarino non fu in grado di dare consigli. Andreotti lo congedò dandogli appuntamento per la mattina successiva nel suo studio privato.
Fu un breve incontro. Andreotti disse: «Si può fare». E in effetti Alibrandi il 4 maggio revocò il provvedimento d’interdizione. Come aveva fatto a convincere il giudice? Guarino lo seppe solo molti anni dopo. «Gli telefonai direttamente», rivelò il presidente. È così che Guarino arriva alla sua conclusione: «Chi ha salvato la Banca d’Italia in quei difficili frangenti è stato Andreotti». Con il quale lo stesso Guarino rimase in rapporti di consuetudine che portarono anche alla sua candidatura alle elezioni europee nelle liste della Dc nel 1983.
L’avvocato rivela anche che, quando Baffi presentò le dimissioni, il direttorio propose all’unanimità il suo nome per l’incarico di direttore generale al fianco di Ciampi. «Il governo andò in diverso avviso», scrive oggi Guarino. Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dopo Andreotti, era stato suo assistente all’università di Sassari.
Ciampi manifesta la sua gratitudine a Guarino nel suo recente Da Livorno al Quirinale, scritto con Arrigo Levi: «Se la soluzione fu trovata – racconta Ciampi – bisogna darne merito all’abilità di Giuseppe Guarino, non solo grande giurista, ma da sempre vicino alla Banca, al quale sono sempre stato molto grato, soprattutto per la Banca». Nello stesso volume Ciampi conferma che a precisa domanda del segretario generale di Palazzo Chigi («Se Baffi si dimette perché non accettiamo il reintegro di Sarcinelli lei che fa?») rispose: «Mi dimetto anch’io».
Dunque fu Andreotti a impedire una crisi istituzionale che avrebbe potuto avere conseguenze devastanti, anche in termini di tenuta dell’Italia sui mercati finanziari internazionali? Probabilmente sì, anche se rimane il fondato sospetto che Andreotti sia comunque stato un protagonista in negativo della vicenda in quanto “protettore” della finanza deviata di Sindona, di Calvi, dei Caltagirone. Le manovre raccontate da Baffi nei suoi diari e da Sarcinelli nei suoi interrogatori, le innumerevoli testimonianze sui rapporti esistenti tra la corrente del leader democristiano e quegli ambienti economici non lasciano molti dubbi. Il 28 febbraio del 1990, a una commemorazione di Sandro Pertini davanti al parlamento riunito in seduta plenaria, Andreotti rivelò di aver proposto al presidente della Repubblica di nominare «un illustre bancario» (Baffi, ndr) senatore a vita. Pertini gli avrebbe risposto: «Non era con me quando lottavamo contro il fascismo». Erano passati pochi mesi dalla pubblicazione postuma dei diari di Baffi, affidati al giornalista Massimo Riva. Andreotti non nominò l’ex-governatore, lo qualificò come “bancario” e gli affibbiò, ricordando le parole di Pertini, la patente di fascista.
Guarino però è convinto del contrario. «Non era Andreotti che tirava le fila di quella macchinazione – dice al Sole 24 Ore –. Lui ha fatto la sua parte: non si sottrasse alle sue responsabilità e decise che cosa bisognava fare». La cautela peraltro è d’obbligo. Perché tra le caratteristiche di Belzebù spicca la doppiezza: aver “salvato” la Banca d’Italia dopo averla picconata non basta per ottenere la beatificazione.
La storia e i protagonisti.
L’attacco alla Banca d’Italia partì il 24 marzo 1979, lo stesso giorno in cui morì il leader del partito repubblicano Ugo La Malfa. Il vicedirettore generale Mario Sarcinelli fu arrestato. Il governatore Paolo Baffi non subì l’onta dell’arresto e del carcere solo perché aveva 68 anni. Entrambi furono poi prosciolti, con la formula più ampia, soltanto due anni dopo. Per quella vicenda, di fatto, furono costretti a lasciare la Banca d’Italia.
I magistrati. Furono il giudice istruttore Antonio Alibrandi (nella foto a lato) e il pm Luciano Infelisi (in basso) a emettere i provvedimenti. Baffi e Sarcinelli erano accusati d’interessi privati in atti d’ufficio e di favoreggiamento personale per i finanziamenti concessi da Imi e Cis alla Sir di Nino Rovelli. Entrambi i magistrati erano vicini alla destra.
Scoppia il caso.
I banchieri. In quei mesi era in atto un tentativo di salvataggio dello scricchiolante impero di Michele Sindona (nella foto a lato). La Banca d’Italia si opponeva alle scorciatoie suggerite dalla politica. Inoltre cominciava a indagare sulle oscure attività di Roberto Calvi (a lato) e del Banco ambrosiano. Sullo sfondo tramavano i poteri oscuri della loggia massonica deviata P2.
Sullo sfondo poteri oscuri.
I politici. L’economista Nino Andreatta (a lato) era responsabile economico della Dc mentre Filippo Maria Pandolfi (sotto) era ministro del Tesoro. Entrambi presero pubblicamente posizione a favore di Bankitalia. Nei giorni dell’attacco anche la comunità degli economisti, guidata da Sergio Steve, si schierò con una dichiarazione di stima per Baffi e per Sarcinelli. Alcuni di loro furono interrogati dai giudici.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 14 novembre 2010

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