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Quali regole per ripartire il rischio

L’agenzia Moody’s ha messo sotto osservazione 14 banche inglesi, possibile preludio a un abbassamento del loro rating; Standard and Poors ha abbassato l’outlook di quattro grandi banche italiane. Due notizie parallele che poggiano su dati di fatto per certi versi opposti.
In Inghilterra molte banche sono state salvate dall’intervento diretto dello Stato, che le ha sostanzialmente nazionalizzate; e quindi oggi a preoccupare Moody’s è l’esistenza di un margine politico a favore di un eventuale ulteriore contributo pubblico al sistema bancario, nonché la flessibilità finanziaria del Governo britannico nell’accollarsi nuovi passivi.
In Italia invece è la bassa prospettiva di crescita del Paese, quella che ha fatto abbassare l’outlook dell’Italia, che potrebbe portare a un declassamento di banche fortemente dipendenti dal mercato domestico. In Inghilterra sono le banche che possono creare problemi al Paese; in Italia è l’effetto della bassa crescita sul debito pubblico che potrebbe creare problemi alle banche.
Giusto sottolineare le differenze, che risalgono ai diversi modi in cui la crisi ha colpito le banche, e alle diverse strategie che esse avevano intrapreso. Quelle seguite dalle nostre hanno loro permesso di sopravvivere sostanzialmente con i propri mezzi alla grande crisi, forse anche per quella che Guido Rossi (sul Sole 24 Ore di domenica scorsa) ha definito la «sostanziale mancanza di un vero mercato finanziario». Ma più ancora delle differenze, istruttive sono le somiglianze: in tutti e due i casi alla base delle osservazioni delle case di rating ci sono i rapporti tra la banca e il suo Paese.
La fonte prima dei rischi delle banche è il debito pubblico. Questo vale per tutti i Paesi e per tutte le banche: indirettamente, per l’effetto del debito pubblico sull’economia del Paese in cui operano; direttamente per i titoli del debito pubblico che hanno nei loro attivi. Si calcola che le esposizioni delle banche tedesche e francesi ai soli debiti di Grecia, Irlanda e Portogallo ammontino a oltre 300 miliardi, più del doppio se dovesse aggiungersi la Spagna. È chiaro che avanzi primari del 6% per 30 anni non sono una soluzione.
Prendere tempo, sembra essere la ricetta (la speranza?) di governi e banche. Per premunirsi di fronte a uno shock sul debito, Draghi fa pressing sulle banche perché facciano aumenti di capitale. Per raccogliere capitali bisogna promettere utili e gli utili, in tutti i piani che si vedono, derivano da aumenti di spread – in previsione di un aumento di tassi da parte della Bce – e da commissioni. Invece dal lato degli impieghi è prevista una crescita nominale pari circa a quella del Pil nominale: che è come dire che i prestiti non aumentano, più probabile che diminuiscano. I parametri di Basilea 3 si raggiungono aumentando il capitale e riducendo gli asset rischiosi.
Rischi e utili: c’è una quantità complessiva di rischio che un’economia può sostenere. Se aumenta il rischio sul debito pubblico diminuisce la quantità di rischio privato che il collateral può sostenere. Ma senza crescita dei profitti non c’è speranza. Bisogna sfruttare tutti i mezzi per trovare modi di investire in attività che producono ricchezza: li scopre e li finanzia l’industria finanziaria. I derivati riducono i rischi e forniscono liquidità al mercato. Un mondo in cui le industrie crescono per autofinanziamento e le banche prestano servizi ci farebbe ritornare al Medioevo.
Certamente bisogna vigilare sui conflitti di interesse delle società di rating, prevenire le tentazioni di insider implicite nel proprietary trading, portare la maggioranza di derivati sui mercati regolamentati. Ma facendo attenzione che controlli e divieti non inaridiscano proprio le attività da cui dipende la possibilità di uscire dal tunnel del debito pubblico: dopotutto in ogni contratto ci sono due contraenti, e ciò che davvero importa evitare che uno dei due possa avvantaggiarsi dell’azzardo morale del too big to fail. Ci saranno anche pressioni lobbistiche di banchieri avidi dietro leggi di migliaia di pagine e codicilli trabocchetto: ma se appare così difficile dettare regole che prevengano il ripetersi della grande crisi, è anche per la oggettiva difficoltà di trovare quelle che aumentino la trasparenza dei mercati, senza renderli più opachi e costosi.
È importante ricordare che il nostro sistema finanziario è quello europeo: nelle decisioni a cui prendiamo parte, abbiamo uno specifico interesse che accanto alla preoccupazione per la stabilità per i conti pubblici ci sia l’attenzione alla crescita e agli strumenti finanziari atti a promuoverla

Fonte: Sole 24 Ore del 26 maggio 2011

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