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Puntare tutto su innovazione,reti e progetti comunitari

Nella “terapia d’urto” del progetto per l’Italia lanciato da Confindustria sono incluse alcune misure a favore di investimenti privati e pubblici in ricerca e innovazione. Ma lo stesso presidente Giorgio Squinzi nell’articolo “Una politica industriale per un paese nuovo” (Sole24Ore dell’8 gennaio) invocava uno “scatto d’orgoglio” come quello che nel secondo dopoguerra ha consentito di “liberare le energie vitali del Paese.
Mettiamo due punti fermi. Primo, la politica industriale non si esaurisce nei pur necessari tavoli di crisi (ancora più di 100 aperti presso il MISE), che spesso ripropongono la dura scelta tra salvataggi-ristrutturazioni di aziende senza credibile futuro e dolorose operazioni di chiusura-dismissioni che purtroppo non diventano “distruzione creatrice”, limitandosi ad accrescere una disoccupazione senza sbocchi. Va invece riconquistato il ruolo assolutamente centrale dell’innovazione tecnologica (e organizzativa!) come motore di riconversione continua dell’intero tessuto di industria e servizi, necessario per rilanciare la produttività e generare nuovi posti lavoro a medio e alto valore aggiunto nella competizione globale. Per usare le parole di Andrew Liveris, CEO della Dow Chemical, occorre riprogettare il manifatturiero del futuro, consapevoli che oggi più che mai “essere pro-government è requisito per essere pro-business” (“Make it in America”, Wiley 2011). Politica dell’innovazione dovrebbe essere anche per noi quasi sinonimo di politica industriale.
Secondo, una quota crescente degli incentivi industriali, inclusi i crediti d’imposta automatici sulla ricerca e innovazione industriale, va indirizzata verso imprese che accettano di aggregarsi (grandi, medie, piccole), con o senza “contratti di rete”, entro progetti di ricerca pre-competitiva, agganciandosi ove possibile al quadro di Horizon 2020 e dei programmi tecnologici europei. Vanno esplicitamente incoraggiate “economie di agglomerazione”, puntando a costruire “ecosistemi innovativi” come nei migliori clusters tecnologici presenti in Europa. Anche questo era il messaggio del documento congiunto della Confindustria italiana e tedesca (Bdi) pubblicato su questo giornale il 5 luglio 2012: in Europa “l’Unione fa la forza”. Oggi purtroppo in Italia la stessa erogazione dei non pochi fondi europei che transitano attraverso Stato e Regioni finisce a disperdersi in progetti troppo spesso privi di massa critica e quindi impossibilitati a sfondare le barriere d’entrata sul mercato.
Su queste basi è possibile ridisegnare un quadro di politica industriale, lontano sia dalla tentazione di proteggere e sussidiare “campioni nazionali” troppo deboli nella competizione internazionale, sia dall’ingenua ideologia che lo Stato deve unicamente limitarsi a fornire condizioni ambientali favorevoli al dinamismo spontaneo delle imprese (“politiche dei fattori”, certo indispensabili come pure la modernizzazione delle infrastrutture di trasporto e digitali) che poi assicurerebbero il migliore sviluppo delle risorse del Paese. Mai come oggi lo Stato e le Regioni sono chiamati non certo a sostituire il mercato (modello IRI-EFIM), ma ad a operare come catalizzatori-partners del mercato. Occorre favorire l’abbattimento dei costi iniziali e la condivisione dei rischi e delle incertezze inevitabilmente connessi con investimenti imprenditoriali a rendimenti assai differiti nel tempo, che puntano a spostare in avanti la frontiera dei vantaggi competitivi ereditati dal passato. Occorre incentivare le imprese a coltivare quelle ben note filiere innovative (bio, nano, digitali) che attraversano e rivitalizzano pressoché tutti i settori manifatturieri e dei servizi ad alta intensità di conoscenza. Diversi studi europei (es. FINNOV della Commissione Europea, febbraio 2012) mostrano che in Francia e Germania il sostegno pubblico è stato determinante nel far decollare la filiera biotecnologica. Per non parlare del decollo delle energie alternative in Germania e del ruolo dell’agenzia statunitense per la sanità (NIH) nell’affermazione dell’industria bio-farmaceutica in quel paese.
Per riaprire seriamente un discorso di “Industria 2015” (ormai almeno “Industria 2020”), sui cui dettagli converrà ritornare, bastano le esortazioni (non certo sospette di statalismo!) verso un “targeted microeconomic activism” dello Stato, come quelle recenti del McKinsey Global Institute (“Investing in growth: Europe’s next challenge”, dicembre 2012).

Fonte: Il Sole 24 Ore del 25 gennaio 2013

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