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Pronti soccorsi:le grida di una guerra perduta

Ogni giorno a Roma 500 pazienti rimangono 24 ore e più in attesa di venire ricoverati al pronto soccorso di uno dei tanti ospedali della Capitale, sdraiati provvisoriamente su lettighe, poltrone, materassi stesi su tavoli di fortuna. Le associazioni dei medici del Servizio sanitario (Anaao-Assomed) lanciano grida d’ allarme per la situazione ognor più drammatica delle strutture d’ urgenza in molte regioni del nostro paese che ricordano i bollettini di guerra dopo gli sfondamenti della prima linea. Eppure il più delle volte quei comunicati finiscono nei cestini degli uffici regionali e ministeriali nonché, ahinoi, delle redazioni. Salvo tornare all’ ordine del giorno, di fronte all’ ennesimo caso di cosiddetta malasanità, trasformato d’ ufficio in atto di accusa contro gli stremati addetti a quel disastrato servizio pubblico, capri espiatori di una situazione di cui sono essi stessi le quotidiane vittime. Basta leggere l’ ultimo comunicato dell’ Assomed. Dopo aver ricordato che oltre 40 milioni di persone all’ anno si rivolgono alle strutture di pronto soccorso, aperte 24 ore su 24, l’ appello dichiara che in quell’ ambito si concentrano tutte le criticità del sistema sanitario: gravi carenze di organico, nascoste in parte da assunzioni temporanee e precarie, tagli di posti letto, ancor più pesanti nelle Regioni sottoposte a piani obbligatori di rientro dal deficit, mancanza di alternative sul territorio, aumento delle richieste dei cittadini. «Il Pronto Soccorso è divenuto il servizio dove si litiga di più, dove fioccano le denunce e più lunghe sono le attese che alimentano una rabbia che dilaga». Con prosa più fredda l’ Assomed cerca di fornire una chiave generale di spiegazione della crisi ricercandola nel fatto che il Pronto Soccorso, da luogo per la gestione delle emergenze, la stabilizzazione del malato in stato acuto, l’ eventuale passaggio in sala chirurgica e/o in terapia intensiva per essere poi rapidamente ricoverato nei vari reparti, «si è invece trasformato in luogo di degenza, in condizioni per lo più precarie». È questo il frutto di riforme lasciate a metà per mancanza di mezzi e di volontà per cui agli annunci di grandi cambiamenti non seguono le misure pratiche per attuarli. Questa è stata la sorte della riforma che divideva i Pronti soccorsi e i grandi e più attrezzati ospedali di II livello, destinati alla medicina e chirurgia d’ urgenza o di più complessa terapia, da quelli di I livello che, assieme ai nosocomi privati convenzionati, avrebbero dovuto assorbire la cosiddetta medicina dell’ elezione (destinata, cioè, ad interventi più semplici e, comunque, programmabili in anticipo con liste calendarizzate). A supporto di questa organizzazione razionale doveva e dovrebbe intervenire una medicina sul territorio (day hospital, rete di medici di base collegati con gli ospedali di riferimento, centri sanitari di pronto intervento, ecc.). Tutto questo in molte regioni è restato sulla carta. Folle di pazienti, sia per i casi di urgenza che d’ elezione, premono sulle strutture d’ urgenza di II livello, le liste di attesa degli uni e degli altri confliggono, non ci sono letti bastevoli né per gli urgenti né per i prenotati. Chi riesce a entrare al pronto soccorso o a medicina d’ urgenza non trova letti nei reparti normali e blocca le strutture d’ emergenza. I medici e il personale infermieristico di queste ultime, sottoposti a stress continuo, senza un euro di indennità, vessati da turni di guardia spesso senza ricambio fanno di tutto per andarsene. Le assunzioni e il turn over sono bloccati. Su tutto questo si è abbattuta la riforma Brunetta che ha introdotto nei Pronti soccorsi l’ obbligo di compilare la certificazione dei ricoveri e di inoltrarli telematicamente all’ Inps e alle aziende di lavoro dei malati. Una riforma razionale ma che senza mezzi e personale sta facendo letteralmente impazzire chi è ancora al suo posto di combattimento.

Fonte: Repubblica del 21 febbraio 2011

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