• lunedì , 23 Dicembre 2024

Profitti su, salari giù

Le celebrazioni del primo maggio sono state dominate quest’anno dai temi delle morti sul lavoro, della precarietà, dell’indigenza nella quale versa una quota troppo ampia di lavoratori in attività ed in pensione. Temi che hanno tradotto in termini di attualità la tradizione che si richiama alle conquiste della prima metà del secolo scorso, quando il lavoro rivendicò ed ottenne una dignità almeno pari a quella che, tra i fattori della produzione, veniva assegnata al capitale. Grazie a quelle conquiste, la seconda metà del secolo è stata contrassegnata dalla dialettica tra capitale e lavoro per la spartizione dei frutti generati dalla crescita della produttività dovuta al progresso tecnico ed alla continua razionalizzazione dei processi produttivi. È superfluo richiamare ora quale sviluppo ne sia derivato non solo in termini meramente economici, ma anche e soprattutto in termini sociali e civili.
Con l’inizio del secolo che ora stiamo vivendo si è resa sempre più evidente l’alterazione di quell’equilibrio. La indicazione più netta è data dall’andamento dei mercati azionari che proprio in questi giorni vanno stabilendo, o si accingono a stabilire, nuovi record storici delle quotazioni. Il valore delle azioni – i libri insegnano – è dato dalla redditività che da esse ci si attende. In questi anni il loro rendimento è già sensibilmente salito, ma l’orientamento al rialzo non manifesta alcun sintomo di essere giunto in prossimità del capolinea. I bilanci delle società quotate che proprio in queste settimane vengono approvati espongono in grandissima maggioranza, come già da qualche anno, utili e dividendi in crescita. Una crescita coerente – chiunque potrebbe spiegare – col fatto che l’economia mondiale è in forte espansione, i commerci si intensificano, e persino il Pil italiano è riuscito a lasciarsi alle spalle gli anni della stagnazione.
La differenza rispetto ai decenni passati sta nel fatto che all’aumento del valore attribuito al capitale investito, rappresentato dai titoli azionari, non ha corrisposto alcun aumento del valore attribuito all’altro fattore della produzione, cioè al lavoro. I singoli lavoratori di questa crescita non si sono quasi accorti. Il loro potere d’acquisto è fermo ormai da anni, qualche leggero miglioramento venendo compensato dalla quota di precari che tonifica i dati sulla occupazione, ma comprime la retribuzione media di quanti la statistica considera occupati.
Questa discrasia è facile da spiegare. Quella dialettica che nei decenni passati vedeva contrapposti capitale e lavoro pressoché ad armi pari, ora avviene tra un capitale che a causa della globalizzazione ha conquistato ampi margini di manovra, e dunque forza contrattuale, ed un lavoro al quale la stessa globalizzazione quei margini, e la relativa forza, ha fortemente ristretto.
Le liberalizzazioni degli ultimi vent’anni consentono al capitale impiegato nei processi produttivi di scegliere nel mondo intero la più conveniente combinazione esistente tra regime fiscale, vincoli ambientali, costi logistici, regole antinfortunistiche ed, ovviamente, costi diretti ed indiretti del fattore lavoro. Per contro, nei Paesi più evoluti sulla via del progresso materiale e civile il lavoro ha perso la forza che gli derivava dall’essere indispensabile per realizzare ogni produzione, proprio perché l’impresa ha una libertà di scelte alternative che il lavoro in nessun caso può avere. Più in particolare, l’imprenditore può scegliere di produrre dove le maestranze, i tecnici, i servizi costano meno; il lavoratore, per contro, di fatto non ha scelta. Per questo motivo i processi di globalizzazione consentono alle imprese non solo una drastica riduzione dei costi, ma anche e soprattutto di acquisire pressoché interamente a profitti il beneficio di produttività che ne deriva in quanto la forza contrattuale del lavoro, direttamente o indirettamente, è stata spiazzata dalle condizioni alle quali il lavoro stesso viene offerto nelle aree del mondo che solo da poco si sono avviate verso lo sviluppo economico e civile.
La promessa del liberismo era diversa. L’abbattimento delle frontiere avrebbe dovuto consentire ai Paesi più evoluti di cedere a quelli più indietro sulla via dello sviluppo (che così avrebbero potuto affrancarsi dall’indigenza) le produzioni a bassa tecnologia per potersi dedicare alle produzioni più specialistiche, innovative, ad elevato valore aggiunto. Tutti, insomma, avrebbero potuto compiere uno o più passi in avanti.
Ma la storia che stiamo vivendo, noi dei Paesi più evoluti e sviluppati, è tutt’altra. È la storia di quanti, per un verso, hanno la possibilità di produrre a costi orientali per poi vendere a prezzi occidentali, così moltiplicando quei redditi che hanno un inequivocabile indicatore nel continuo innalzamento degli indici di borsa; e di quanti, per altro verso, hanno difficoltà a difendere il potere d’acquisto già raggiunto perché la loro remunerazione si ritrova in concorrenza – e non importa se diretta o indiretta – con le remunerazioni che si possono riscontrare nell’est-Europa o nell’Asia.
I temi di attualità che hanno dominato le celebrazioni del 1° maggio sono reali, pressanti, indegni di un Paese civile. Affrontarli è un dovere, ma nella consapevolezza che essi sono in gran parte conseguenza diretta di una storia che, in Italia come negli altri Paesi evoluti dell’Europa occidentale, anche in quelli governati da forze progressiste, non sta certo portando il lavoro, quello di oggi e quello di domani, verso il migliore dei mondi possibili.

Fonte: L'Unità del 3 maggio 2007

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