• venerdì , 22 Novembre 2024

Professioni, chi si sente trattato molto male

Non bisogna però assolutamente pensare di trovarsi agli albori di un inevitabile declino.
Per chi crede che «la società esiste» il professional Day di oggi è comunque una buona notizia e un’occasione. Con tutta evidenza si tratta di una mobilitazione che nasce in risposta ai progetti governativi di liberalizzazione ma è anche abbastanza chiaro come abbia radici più profonde. Il malessere dei professionisti italiani affonda nella crisi ed è importante che la mobilitazione individui nella crisi il vero avversario.
Abbiamo dietro di noi più di due anni che hanno portato a una silenziosa ristrutturazione dell’offerta di servizi professionali, a un allargamento del fossato tra senior e junior, a uno schiacciamento verso il basso della stessa identità sociale. Secondo una ricerca della Camera di commercio un terzo dei professionisti milanesi ha visto peggiorare il tenore di vita suo e della famiglia e il 60% dei giovani architetti, avvocati, psicologi tende a identificarsi come «precario». Se dall’analisi delle condizioni mediane ci spostiamo a considerare le eccellenze dobbiamo anche qui registrare come la nostra capacità di esportare servizi professionali non stia attraversando certo il suo periodo migliore. Constatato che la crisi ha minato la forza e l’autostima del professionalismo italiano non bisogna però assolutamente pensare di trovarsi agli albori di un inevitabile declino.
I trend di lungo periodo ci dicono il contrario, ci parlano di un’economia che bene o male si terziarizza e che quindi ha maggior bisogno di un modello professionale giudicato come il più adatto a esprimere le potenzialità della società della conoscenza. La crescente complessità dei sistemi socioeconomici chiede più differenziazione e specializzazione. Non basta più l’avvocato generalista o civilista, ma ci vuole il matrimonialista, il giuslavorista, l’esperto di diritto societario, internazionale, amministrativo e via di questo passo. Ma non è tutto. I nuovi servizi legati a innovazione e tecnologia stanno facendo crescere professioni diverse dal passato. Si pensi a quelle di tipo creativo o a quelle legate all’economia del tempo libero.
Come ha mostrato un’altra ricerca comparata, condotta dal professor Paolo Feltrin, rispetto a queste novità non esiste per ora un solo modello nazionale di regolazione e sviluppo. Ognuno nei Paesi europei nostri partner ha affrontato il problema secondo le sue tradizioni e specificità. Non esiste una sola formula europea, dunque, anche se Bruxelles si è sempre spesa per la liberalizzazione e la concorrenza nei servizi professionali. La debolezza dell’approccio Ue è stata sempre quella di tener presente solo il consumatore e di tutelare solo il suo sacrosanto diritto di poter spender meno ma il Bruxelles-pensiero non ha saputo rispondere all’altrettanto legittima richiesta di riconoscimento identitario e di garanzia della qualità avanzata dagli organismi professionali nelle differenti realtà nazionali. È chiaro che l’iniziativa del governo italiano si muove in qualche modo nel solco dell’elaborazione europea, ne recepisce lo spirito pro concorrenza ma si ferma lì, non fa quel passo in avanti che una strategia di uscita dalla crisi delle professioni richiederebbe.
La speranza però è che il mondo delle professioni non si chiuda a riccio ma usi sia il confronto con il governo sia le occasioni di mobilitazione interna per affinare la propria elaborazione, per fare i conti con il mercato magari in maniera originale. Non si può pensare che le professioni possano vivere di una sorta di “bolla”, fuori dalle regole dell’economia e fuori dai processi di internazionalizzazione. Se i professionisti si proclamano (giustamente) gelosi della propria autonomia intellettuale e vogliono evitare di essere assimilati tout court alle logiche che regolano l’impresa capitalistica non c’è niente di scandaloso, anzi. Si possono trovare delle forme societarie che garantiscano la peculiarità del professionalismo e allo stesso tempo facciano sì che il settore attragga quelle risorse necessarie per investire, essere competitivi, esportare le nostre competenze all’estero. La strada che abbiamo davanti è sicuramente lunga, forse non è tutta dritta ma sarebbe importante che almeno si cammini tutti nella stessa direzione.

Fonte: Corriere della Sera del 1 marzo 2012

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