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Priorità al nucleare

Scongiuriamo un effetto domino e puntiamo alla crescita.
Non esageriamo. Gli effetti economici del “1989 islamico”, così come un po’ frettolosamente sono stati definiti i sommovimenti che stanno attraversando alcuni paesi del Mediterraneo, sono rilevanti, per certi versi anche pesanti, ma non drammatici come qualcuno li ha definiti. Per capirci, non sono tali da scongiurare la ripresa in atto o, peggio, da farci ritornare nel pieno della recessione mondiale che ha tenuto banco nel 2009. Anzi, in qualche modo possono anche tornarci utili, se solo sapremo coglierli come l’occasione giusta per fare scelte che altrimenti avremmo rimandato. A meno che le rivolte in atto non generino tali sconquassi geo-politici e tali conseguenze sociali – per esempio, l’esodo biblico di milioni di persone – da creare ricadute economiche oggi imprevedibili. Ma questo, oltre a sperare che non accada, è francamente uno scenario che allo stato delle cose non è faciloneria considerare irrealistico.
Certo, i problemi non mancano. I due più importanti, tra loro legati, sono quelli dell’aumento del prezzo del petrolio e del rialzo dell’inflazione. Il primo facilmente descrivibile: la Libia ha smesso di produrre un milione e mezzo di barili al giorno, di cui l’85% era destinato all’Europa, ma che su scala mondiale conta solo il 2%; l’Arabia Saudita rimpiazza questa produzione, ma inevitabilmente pretende un prezzo maggiore. Se a questo si aggiunge un po’ di speculazione – il famoso “petrolio di carta”, cioè contratti di approvvigionamento su cui si gioca al rialzo – ecco spiegato il superamento della soglia dei 100 dollari al barile. Ma, attenzione: il petrolio era tornato caro – anche se ancora lontano dal record storico di 147,27 dollari al barile segnato il 2 gennaio 2008 – ben prima che il Maghreb fosse in fiamme, come testimonia una lunga fase di rialzi, iniziati l’estate scorsa quando in agosto il barile aveva toccato gli 80 dollari per poi arrivare a 90 in dicembre. E il motivo principale di quella corsa all’insù era l’aumento dei consumi di energia dei paesi a più alto tasso di sviluppo, asiatici in testa. Dunque, se dal lato degli approvvigionamenti il solo petrolio saudita, prima ancora che decisioni Opec, sono in grado di darci tranquillità – e comunque il segretario al Tesoro Usa, Geithner, ha assicurato che le riserve di petrolio a livello globale sono ampie e se necessario possono essere utilizzate – e da quello del prezzo un buon 60% dei rincari sono da attribuirsi a ragioni di buon andamento dell’economia mondiale, non c’è proprio ragione per associare la situazione che stiamo vivendo al pericolo di un ritorno della recessione. Semmai, il pericolo maggiore può venire dalla corsa, che dura ormai da otto mesi, dei prezzi delle materie prime agricole: la Fao parla di massimi storici, ed è evidente che nel Nord Africa e nel Medio Oriente la causa prima delle “rivolte del pane” non è stato il bisogno di democrazia ma la fame.
Stesso discorso per l’inflazione. Essa è conseguenza del surriscaldamento dell’economia – che, in altre parole, tira troppo – per quanto riguarda i paesi emergenti, ed è tutta importata, cioè effetto del rialzo del petrolio, per quanto riguarda l’Europa. Si tratta di un fenomeno da non sottovalutare, anche perché già sappiamo che comporterà un prossimo rialzo dei tassi d’interesse. Ma neppure da sopravvalutare, se è vero che stiamo parlando comunque di un’inflazione che sta tra il 2% e il 3%. Lontana, per esempio, da quel 6% che sta dando qualche preoccupazione ai cinesi.
Questi giudizi valgono, naturalmente, se si guarda allo scenario globale. E se si ragiona in modo indistinto. Se poi si articola il ragionamento, si vede che, pur mettendo in conto che ogni 10 dollari di aumento del prezzo del barile vuol dire mezzo punto di meno di pil mondiale, i paesi emergenti se ne accorgeranno relativamente, mentre le aree di vecchia industrializzazione, e l’Europa in particolare, sono destinate a subire i danni maggiori. In particolare, è l’Italia che deve temere di più. E su entrambi i fronti, petrolio e inflazione. Nel primo caso, infatti, il barile stabilmente oltre i 100 dollari mette in evidenza il costo della nostra dipendenza dagli idrocarburi. Ma nello stesso tempo ci offre un’opportunità: prendere atto una volta per tutte, cominciando con il prossimo referendum, che il nucleare ci è assolutamente indispensabile. Ieri l’ha suggerito l’amministratore delegato dell’Enel, Conti: “più carbone e nucleare per avere meno dipendenza da un’unica commodity”. Ha ragione, ascoltiamolo.
Riguardo all’inflazione, non spaventa tanto il 2,4% che abbiamo raggiunto per i prezzi al consumo, anche perché è in linea con l’Europa, quanto il +5,1% su base annua che hanno fatto segnare i prezzi alla produzione industriale, quelli che si formano nel primo stadio di commercializzazione. Ma anche qui, la corsa va avanti ininterrottamente da ottobre, e finora si è scaricata sui prezzi al dettaglio solo parzialmente. L’unico modo per scongiurare un effetto domino è quello di riprendere a crescere con maggior vigore. Cosa che lo scenario mondiale ci consente visto che le nostre chance per ora sono tutte sul fronte delle esportazioni, e non certo dei consumi interni. Se solo smettessimo di parlar d’altro…

Fonte: Il Messaggero del 6 marzo 2011

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