• domenica , 8 Settembre 2024

Precariato, la ricetta di Ichino fa acqua

Torna all’ordine del giorno la questione del precariato. Dopo settimane trascorse ad inseguire i temi della giustizia, il grande Circo Barnum dell’informazione – specie se orientata a sinistra – è tornato ad occuparsi della “mistica della precarietà”, riempiendo i quotidiani e i talk show di giovani che denunciano la loro ingrata condizione, attribuendone la responsabilità a tutti meno che a se stessi e agli sponsor della loro causa più generosi nel fare che nel mantenere le promesse.
Ad indicare delle possibili soluzioni si sono mossi, con un articolo a tre firme sul Corriere della Sera, Pietro Ichino, Luca Cordero di Montezemolo e Nicola Rossi (e ieri anche Gianfranco Fini). Le loro proposte prendono spunto da alcune considerazioni corrette e condivisibili: invitano, per esempio, i giovani a non ricercare la prospettiva della stabilità nella scuola o nella pubblica amministrazione, evitando per sé, in questa maniera, una forma perniciosa di autoinganno perché quelle porte non si spalancheranno mai più come nel passato. Gli autori dell’articolo hanno altresì individuato uno degli aspetti essenziali del divario esistente nel mercato del lavoro: se la flessibilità in entrata è eccessiva (e grava soprattutto sui giovani) ciò dipende soprattutto dalla mancanza di un’adeguata flessibilità in uscita.
Ma le terapie non convincono del tutto. La loro proposta è sostanzialmente riconducibile al cosiddetto contratto unico a tutela differenziata, in base al quale il rapporto di lavoro normale sarebbe a tempo indeterminato, mentre la tutela contro la risoluzione ingiustificata acquisterebbe efficacia reale (con tanto di reintegra nel posto di lavoro) solo dopo alcuni anni, regolati invece dal criterio del risarcimento del danno. Un’impostazione siffatta, come ha fatto notare il ministro Sacconi, è inadeguata per tanti motivi.
È discutibile, infatti, voler ricondurre, forzatamente, qualsiasi lavoro all’interno di un rapporto alle dipendenze a tempo indeterminato (magari preceduto da un periodo di apprendistato), dimenticando che il contratto a termine o a progetto hanno un profilo e un contenuto specifici, in quanto corrispondono ad un preciso fabbisogno della domanda e dell’offerta di lavoro. Lo stesso discorso potrebbe essere fatto per la somministrazione, il lavoro a chiamata o quant’altro. È sbagliato ritenere che tutti i contratti a termine, tutte le collaborazioni o le altre forme di lavoro siano un pretesto per eludere il principio della stabilità. Il problema è un altro: l’anello che manca è una riforma equa ed equilibrata dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Fonte: Occidentale del 13 aprile 2011

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