Il dibattito sulla politica industriale ha rischiato di diventare una guerra di religione: da una parte i sacerdoti del liberismo a oltranza; dall’altra chi sostiene che senza direttive pubbliche non si recupera competitività; in mezzo i politici che si barcamenano su un tema ben poco interessante dal punto di vista elettorale anche se importante per il futuro del paese.
Avevo ripetutamente denunciato questo pericolo sul mio blog, ma devo segnalare che nelle ultime settimane la discussione ha fatto qualche passo avanti concreto, almeno in tre direzioni.
1 Gli economisti. Alle affermazioni oltranziste (in sostanza: la politica industriale è una parolaccia) del bocconiano Roberto Perotti, che avevo già commentato, hanno risposto sul Sole 24 Ore del 27 settembre con sano realismo due altri economisti di valore: Andrea Gavosto (Chief economist della Telecom) e Guido Pellegrini dell’Università di Bologna, i quali hanno fatto presente che gli incentivi (se ben gestiti, ovviamente) possono anticipare il ciclo degli investimenti con effetti positivi sulla congiuntura e sull’occupazione. Anche l’articolo dell’economista Marcello Messori pubblicato dal CorrierEconomia, pur essendo molto critico sull’adattabilità all’Italia del modello francese, suggerisce il selettivo rafforzamento, mediante disegni non distorsivi di incentivo e supporto pubblico, delle attività di successo. E poiché qualcuno dovrà pur stabilire quali sono queste benedette attività di successo, Messori suggerisce sensori decentrati e strumenti coordinati d’intervento. Coordinati da chi? Messori non lo dice, ma Bruxelles ci suggerisce una risposta, come si potrà vedere nel prossimo paragrafo.
2 L’Europa. La politica industriale, intesa come politica di settore, non è una prerogativa del dirigismo francese. L’Ue approva oggi un Piano d’azione per l’innovazione, che è stato anticipato ai giornali dal commissario Janez Potocmik. Il Piano si basa su 26 piattaforme tecnologiche settoriali che includono tutte le parti in causa, dalle autorità regolamentari a ricercatori, politici, istituti finanziari, Ong: producono agende che di ricerca, piani di lungo periodo per 10 20 anni a livello europeo. Questa è la giusta dimensione della politica industriale, la cornice nella quale inserire tutte le iniziative nazionali. L’enfasi sulla concertazione è importante. Ovviamente non ci si deve illudere che chi elabora queste piattaforme abbia la sfera di cristallo, ma solo che si compiano alcune scelte di massima sulle priorità nei finanziamenti all’innovazione.
3 La politica italiana. Il tema della politica industriale non è centrale, come abbiamo detto, ma non è nemmeno ignorato. L’opposizione ha realizzato un dossier per la conferenza programmatica dell’Ulivo di gennaio. Ne ha parlato, con la sua abituale concretezza, Pier Luigi Bersani, annunciando che verranno aiutate le grandi imprese a trovare dimensioni continentali e che ci saranno bonus per favorire la concentrazione e lo start up di nuove iniziative. Intanto il governo sta cercando di lanciare i nuovi distretti tecnologici.
Conclusione. La politica industriale (che sarebbe meglio chiamare politica per l’impresa, perché in buona parte rivolta a produttori di servizi) non può rinunciare a utilizzare strumenti d’intervento settoriale, a condizione che questi strumenti siano:
· orientati all’innovazione e non alla difesa di settori decotti;
· ben gestiti, con efficienza amministrativa e una effettiva conoscenza della realtà produttiva;
· concertati tra i soggetti interessati;
· coordinati a livello europeo,
· traguardati su obiettivi di medio e lungo termine.
Non è poco. Qualcuno dirà che si tratta di vincoli non facili, soprattutto in Italia. Ma queste sono le regole dell’economia. O si rispettano oppure si è fuori gioco.
Politica industriale, concertata, europea, indispensabile
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