S ono ormai settimane che i meccanismi della rappresentanza sociopolitica stanno diventando sempre più tribolati, ma non per questo meno importanti nelle vicende di potere di questo Paese. Basterebbero, per provarlo, alcune prese d’ atto: l’ articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere del 18 ottobre e la conseguente risposta della presidente di Confindustria che ruotano sull’ accusa alla rappresentanza degli industriali di essere il più grande fattore di conservazione corporativa, in combutta e reciproco sostegno con le rappresentanze sindacali; da un mese le grandi cinque organizzazioni di rappresentanza datoriale (Ania, Confindustria, Abi, Alleanza cooperativa e Rete Imprese Italia) hanno elaborato un Progetto per l’ Italia, ma hanno trovato il vuoto, senza possibilità di interlocuzione con il governo e hanno dovuto reiterare la minaccia del «tempo scaduto» per stabilire una seria concertazione del decreto-sviluppo; il 17 ottobre a Todi tutti i corpi sociali intermedi del mondo cattolico hanno avviato un processo di nuova loro rappresentanza sociopolitica, scatenando reazioni di ostilità per una mossa che il potere politico (tutto intero, a destra e a sinistra) vede come una avventata escursione fuori dei confini del sociale; e mi sarà permesso di aggiungere (da ex presidente) che anche il luogo istituzionalmente più alto della presenza delle forze sociali, cioè il Cnel (Consiglio nazionale dell’ economia e del lavoro), è stato nelle scorse settimane dimezzato nei componenti e asciugato nelle risorse, nella convinzione della politica che si tratti dell’ icona stessa del corporativismo conservatore. Il moderno che avanza sembra quindi non aver bisogno di partecipazione collettiva, di dialettica intermedia, di meccanismi di rappresentanza: onora chi si esalta nel mercato e concede delega a un potere finanziario sempre più verticalizzato (Marchionne e Francoforte). Si arriva a demolire l’ idea che gli interessi, i problemi, le motivazioni delle diverse realtà sociali (categoriali, di classe, di territorio) possano avere meccanismi intermedi di accesso e di potere nella dialettica politica. Le parti sociali, in questa luce devono sempre restare «parti», lontano da ambizioni di parlare dell’ intero; e i critici più radicali quasi ne auspicano la soppressione, per garantire al mercato e alla politica una non condizionata libertà di movimento dei soggetti che inquinano, rendendola corporativa, la dialettica di sistema. Spazio allora ai due poteri «superiori»: il mitico mercato e il mitico potere politico. I fautori di questa duplice rivendicazione sembrano dimenticare due cose. La prima è che i due mitici poteri sopra citati non hanno dato mostra di saper governare una società complessa e articolata come la nostra, anzi di guai ne hanno prodotti tanti, spesso tenendosi reciprocamente in vita. E la seconda è che mercato e potere politico forse (molto forse) portano decisione, ma certo non sono in grado di garantire quella relazione con gli altri, quella coesione collettiva, quella tensione a partecipare che oggi sono indispensabili per dare senso e futuro alla vita di tutti. Andiamo verso mesi caldi e anni pericolosi, non possiamo non darci strutture intermedie che sappiano fare tessuto sociale, mediazione, convergenza anche decisionale. Altrimenti restiamo sul vento delle opinioni, non prendendo atto che si tratta di parole, spesso senza reali responsabilità. Lo dobbiamo capire tutti, anche quei leader della rappresentanza che privilegiano l’ opinionismo, dimenticando che una società vive di sostanza, di forza delle strutture, di realismo dei comportamenti.
Fonte: Corriere della Sera del 26 ottobre 2011Politica e mercati da soli non bastano
L'autore: Giuseppe De Rita
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