I governi dell’Europa sono riusciti domenica a trovare un accordo per gestire gli attacchi della speculazione all’euro. Bene hanno fatto. Ma tutti sappiamo che la soluzione trovata serve essenzialmente a prendere tempo. L’Europa soffre di un progetto incompiuto e di leadership. Come sarebbe stata gestita la crisi dell’euro se ci fossero Kohl, Delors, Andreatta?
Difficile dire che cosa avrebbero fatto nello specifico, ma di certo non si sarebbero tirati indietro. Sarebbero andati avanti. In una crisi come questa, sarebbe stato necessario fare un balzo verso una maggiore unione nell’Europa dell’euro. Perché è vero che c’è la moneta comune, ma non c’è ancora una politica fiscale comune. La risposta sarebbe stata quella di andare avanti nel processo verso una vera Federazione di stati, almeno nell’area dell’euro. La strada verso una Federazione di stati in Europa è necessaria per dare corpo a una politica fiscale europea che faccia da contrappeso alla politica monetaria comune. Ma è anche necessaria per consolidare posizioni di debito e credito, così come avviene negli stati nazionali. E non si venga a dire che i nostri paesi sono troppo diversi tra di loro e non possono avere una politica economica comune.
Se questa affermazione fosse vera, bisognerebbe smembrare gli Usa, la Cina, la Russia, l’India, il Brasile. E non ci si fermerebbe ai grandi stati. Anche Francia, Spagna e Germania hanno al loro interno enormi disparità. E che dire dell’Italia, che qualcuno vorrebbe riportare a prima del Risorgimento?
In effetti, il mondo è attraversato da forti squilibri e abbiamo bisogno di costituire aree più vaste per assorbire questi squilibri. E anche per crescere e svilupparci. Se invece si volesse tornare ai piccoli paesi che debbono stare tutti in equilibrio contemporaneamente, come sembrano suggerire quanti vorrebbero far fallire l’euro, avremmo come risultato un forte ridimensionamento dei livelli di vita in tutti i paesi.
E infatti, da una frantumazione dell’euro risulterebbero svalutazioni competitive, processi inflazionistici e politiche restrittive, al fine di raggiungere tutti un equilibrio nei conti con l’estero. Qualcuno ci guadagnerebbe, forse. Ma le popolazioni tutte ci perderebbero.
E questo è tanto più vero oggi che la crisi poggia sugli squilibri e sui debiti che si sono formati negli ultimi anni. Hanno iniziato gli Usa, mandando all’aria il loro bilancio pubblico e poi la bilancia dei pagamenti con una politica espansiva volta a evitare i rischi di una recessione che per loro era necessaria.
Al crescente indebitamento americano ha fatto riscontro, e non poteva essere altrimenti, un avanzo in altri paesi. In Cina, in primo luogo, ma anche in Giappone, India, Germania. Gli squilibri nei conti con l’estero, in un clima di basso costo del denaro, hanno generato una liquidità eccessiva che si è riversata sui mercati in cerca di remunerazioni che non potevano venire dai bassi saggi d’interesse. Ne sono derivate bolle speculative, nuovi squilibri e offerte di prodotti finanziari sempre più complicati per riciclare i debiti e realizzare utili nel breve. Certo, le grandi banche d’affari hanno le loro responsabilità. Come le hanno le agenzie di rating e le autorità di controllo dei mercati. Ma è la politica, quella americana in particolare, la vera responsabile di ciò che è successo, perché ha favorito e tollerato a lungo lo squilibrio fondamentale che si è trasformato in uno tsunami finanziario.
Finora, per arginare la situazione di debito che si era andata formando, abbiamo dovuto generare un nuovo debito: da quello delle banche a quello degli stati. Una specie di cura omeopatica che tuttavia rischia di provocare nuove tensioni. Ieri si è trattato di salvare le banche per non far fallire gli stati. Oggi dobbiamo salvare gli stati per non far fallire tutti. Occorre, invece, avviare una politica di riduzione degli squilibri nel mondo. Gli Usa devono rassegnarsi (e noi con loro) a ridurre il livello delle loro importazioni, anche se questo rallenterà la sperata ripresa. Una svalutazione del dollaro può aiutare, mentre oggi assistiamo paradossalmente a un suo rafforzamento. La Cina deve varare riforme interne per liberalizzare i mercati e per aumentare il livello di protezione sociale. Misure di questo tipo possono consentire una maggiore crescita della domanda interna cinese.
L’Europa, quella dell’euro in particolare, deve procedere verso la costituzione di una vera unione politica. In questa maniera potrà avere una politica fiscale consona con la politica monetaria e potrà superare tensioni di carattere regionale. Anche per tale via finirà per avere una maggiore domanda interna che rafforzerà la sua crescita. Per questo avremmo bisogno, oggi più che mai, di quei personaggi che hanno concorso a fare la storia dell’Europa, assumendone rischi e responsabilità per andare avanti.
Più federalismo farà l’Europa
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