• giovedì , 28 Novembre 2024

Più donne che uomini:come cambia il lavoro

«Ho fatto un figlio, non una lobotomia». Una donna avvocato di Boston racconta sul sito dell’«Huffington Post» di aver protestato così coi capi del suo studio legale che, tornata al lavoro dopo il periodo di maternità, la utilizzavano poco o le assegnavano solo lavoretti elementari. Non è un caso isolato. Negli Usa, come nel resto del mondo, il mercato del lavoro è stato sempre caratterizzato da un triplice gap, con le donne penalizzate sul piano retributivo, dei livelli occupazionali e, soprattutto, nella conquista di posizioni di comando. E la maternità è di certo uno dei fattori che le frenano, alimentando discriminazioni.
La globalizzazione, i mutamenti nel mercato del lavoro e anche la Grande Recessione degli ultimi due anni che ha scosso soprattutto l’Occidente stanno, però, modificando questa situazione: in misura significativa negli Stati Uniti e in alcuni Paesi dell’Asia, meno in Europa e quasi per niente in Italia. In America le donne se la sono cavata nettamente meglio degli uomini davanti alla recessione (la disoccupazione maschile sfiora il 10 per cento, quella femminile è all’8) e hanno anche un po’ ridotto il gap retributivo: a parità di lavoro guadagnano l’82 per cento di un maschio. Una differenza sempre molto rilevante, in parte dovuta agli impegni familiari che rallentano le carriere o spingono verso forme di lavoro part time. Il recupero, però, c’è (dieci anni fa eravamo al 79 per cento) e in futuro non potrà che continuare, anche perché da tempo le donne americane hanno superato gli uomini per numero di lauree, di master e anche di dottorati di ricerca. Intanto, metà del mercato del lavoro è ormai «rosa». Il 2010 è l’anno del sorpasso: le donne, che dodici mesi fa erano salite al 49,7 per cento, dovrebbero ormai essere maggioranza tra i percettori di reddito in America. I dati sono contraddittori: per alcuni i maschi sono stati superati in primavera, secondo altri verranno scavalcati poco prima della fine dell’anno.
Indra Nooyi, amministratore delegato della Pepsi.
Ma il trend è chiaro: gli uomini soffrono di più perché rappresentano la grande maggioranza dei lavoratori dei settori più colpiti dalla crisi, dall’industria manifatturiera alle costruzioni. Le donne, invece, prevalgono in settori poco penalizzati dalla recessione, dall’insegnamento all’assistenza ospedaliera.Family Relations, uno studio appena pubblicato dall’Università del New Hampshire, documenta i numerosissimi casi di madri di famiglia spinte ad entrare all’improvviso nel mercato del lavoro perché, col marito rimasto disoccupato e difficile da riqualificare, tocca a loro salvare il bilancio familiare andando a fare le segretarie in un ufficio, le commesse in un negozio o, magari, le infermiere. Per quanto poi riguarda le questioni di leadership, le donne hanno conquistato molte posizioni di potere in politica – Nancy Pelosi leader della Camera, Hillary Clinton Segretario di Stato e possibile candidato democratico alla Casa Bianca nel dopo Obama, magari contro la repubblicana Sarah Palin – ma anche negli organismi che governano la finanza: alla guida della Sec, la Consob Usa, c’è Mary Schapiro, mentre all’Fdic la sorveglianza sulle banche commerciali è affidata a Sheila Bair. La Federal Reserve, la banca centrale, è presieduta dal barbuto Ben Bernanke, ma da qualche giorno suo vice è diventata Janet Yellen, da molti anni al vertice della Fed di San Francisco.
Nelle grandi aziende le figure di top manager al femminile sono ancora relativamente poche – da Irene Rosenfeld, che guida la Kraft, all’indiana Indra Nooyi, amministratore delegato della Pepsi, passando per le donne che sono a capo della chimica DuPont, della Xerox o di Yahoo! – ma nelle prime 500 società americane le donne sono riuscite a conquistare il 15 per cento delle poltrone nei consigli d’amministrazione. Non molto, è vero, ma rispetto a 25 anni fa il numero è quasi raddoppiato, mentre le imprese asiatiche, come anche quelle europee, sono molto più indietro. E questo nonostante qualche Paese della Ue abbia introdotto quote rosa obbligatorie per costringere le sue aziende ad aprire il ponte di comando all’«altra metà del cielo». Norme di questo tipo sono in discussione da tempo in Italia e Francia, mentre sono già operative in Norvegia (dove i board delle società devono essere composti per il 40 per cento da donne) e sono state varate anche da Spagna e Olanda che, però, le applicheranno solo a partire dal 2015. Nonostante tutte queste spinte, però, l’Europa è ferma a una quota femminile nei consigli dell’11,7 per cento.
Le quote rosa hanno una loro logica, ma rischiano di provocare distorsioni. In Norvegia, ad esempio, le donne con un’esperienza manageriale di peso sono talmente poche che ognuna di loro finisce per sedere in tre o quattro consigli d’amministrazione. E in Francia la spinta a dare una connotazione più femminile ai consigli d’amministrazione, ha portato alla nomina di diverse donne che, però, devono il loro incarico più alle appartenenze familiari che alle capacità manageriali: sei mesi fa Bernard Arnault ha stupito tutti chiamando nel consiglio della Lvmh, la sua multinazionale del lusso, Bernadette Chirac, moglie dell’ex presidente francese, mentre Florence Woerth, consorte del ministro del Lavoro di Parigi, siede nel board di Hermès. Al vertice di società francesi di prima grandezza sono arrivate anche le mogli dell’industriale aeronautico Serge Dassault, del capo di Société Générale e del senatore Longuet.
Qualcosa del genere capita anche nei Paesi emergenti: Cecilia Ibru, l’amministratore delegato della Oceanic Bank, un istituto della Nigeria posseduto dalla sua famiglia, era l’ammirata protagonista di una success story fino al crollo del sistema bancario del Paese africano, che l’ha fatta finire davanti alla commissione che indaga sui crimini finanziari. ’è poi l’Arabia Saudita, Paese nel quale le donne non possono guidare un’automobile, ma possono guidare una banca: sono diverse le signore al comando di un’istituzione creditizia o finanziaria. Spesso si tratta di gruppi posseduti dalla loro famiglia, ma ci sono anche casi come quello di Nahed Taher che, con una laurea presa in Gran Bretagna e dopo essere riuscita a trovare spazio tra i top manager della National Commercial Bank di Gedda, facendosi largo tra i quattromila funzionari maschi dell’istituto, ha fondato ed è diventata amministratore delegato della Gulf One Investment Bank.
Certo, nei Paesi in cui l’emancipazione femminile è ancora un miraggio è tutto più difficile. In India, ad esempio, nonostante la formidabile crescita economica, le donne faticano ad emergere: quando guidano un gruppo finanziario o industriale è in genere perché l’hanno ereditato dal padre. E in Corea del Sud una cultura ancora fortemente maschilista, nonostante l’ampio spazio conquistato dalle donne nel lavoro, ha spinto Hwang Myoung, direttrice marketing di un’azienda e madre di un bimbo di sei anni, a comprare un’intera pagina di un quotidiano di Seul per trasformare le sue frustrazioni in un caso: «Sono una donna cattiva: in azienda ho successo – spiega nella sua lettera aperta -, ma a casa sono considerata una fallita. Mi sento una cattiva madre e una cattiva moglie. E, siccome guadagno molto più di mio marito, devo stare attenta a non urtare la sua suscettibilità».
Non è così dappertutto: a Taiwan, Paese con un Parlamento composto per un terzo da donne, il mercato del lavoro è sempre più connotato da un’ampia presenza femminile e le differenze retributive rispetto ai maschi, a parità di impiego, sino ridotte a meno del 20 per cento. È la metà rispetto alla penalizzazione che si registra in Corea. In Vietnam, poi, le donne guidano moltissime imprese di prima grandezza: un cambiamento avvenuto nei lunghi anni della guerra, quando i maschi combattevano o si nascondevano nella giungla. Ma, grazie alla loro abilità negli affari e alle peculiarità della cultura buddista, spesso queste donne sono rimaste leader anche negli ultimi decenni di pace. Quanto alla Cina, nell’industria il management è composto in larghissima misura di uomini, ma le donne hanno in mano gran parte del commercio.
In Europa, come detto, l’attenzione è concentrata sugli sforzi per ampliare la rappresentanza femminile al vertice delle aziende. Non solo provando a imporre quote rosa per legge, ma anche per l’iniziativa autonoma di singole aziende (come la tedesca Deutsche Telekom, che si è impegnata ad avere entro il 2015 quadri intermedi e top management composti per almeno il 30 per cento da donne) o per alcune originali iniziative d’investimento. La finanziaria svizzera Naissance Capital ha, ad esempio, creato un fondo che investe solo in società che hanno donne in consiglio d’amministrazione. E sostiene che questa scelta, che ha di certo un obiettivo sociale, risponde comunque a una logica economica visto che, secondo gli studi condotti negli anni scorsi dalle società di consulenza McKinsey e Catalyst, le aziende con donne nel Cda sono mediamente più redditizie delle altre tanto in Europa quanto negli Usa.
Stati Uniti dove, però, nessuno pensa a misure dirigiste per aumentare il rosa al vertice della piramide aziendale. Obama cerca, invece, di ridurre le diseguaglianze alla sua base: una delle prime misure che ha sostenuto, quando è arrivato alla Casa Bianca, è stato il Paycheck Fairness Act, una norma che rende più facile la denuncia del datore di lavoro da parte di donne che si sentono discriminate sul piano retributivo. La legge è passata alla Camera, ma è ferma al Senato per l’opposizione repubblicana. Secondo i conservatori dell’American Enterprise Institute quello della discriminazione retributiva è un mito: i maschi guadagnano di più perché fanno lavori più impegnativi o pericolosi e perché lavorano più a lungo, non avendo interruzioni per maternità

Fonte: Corriere della Sera del 10 ottobre 2010

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