• domenica , 24 Novembre 2024

Perchè tutti odiano le banche

Nate per favorire l’impresa e quindi il benessere, si sono trasformate in enormi divoratrici dei soldi dei contribuenti. E quello che sta succedendo in queste ore sui mercati le rende ancora più impopolari.
Insaziabili come i grassoni in marsina disegnati da Grosz negli anni Venti o poveri cristi col cappello in mano in cerca di 100 miliardi di euro (108, secondo l’ultima stima, ma c’è chi dice 200) per tenere in piedi le loro disastrate baracche, prima che prendano fuoco e arrostiscano tutta l’economia continentale? Visti dai contestatori di Occupy Wall Street o dai governi che continuano a dargli soldi, i banchieri non sono mai stati così screditati.
L’ultimo scandalo, quello della banca franco-belga Dexia, salvata già una volta a spese del contribuente e ora statalizzata con 4 miliardi di euro, è – più che un campanello d’allarme – una campana a morto per la trasparenza dei governi e per la credibilità dei regolatori: l’opinione pubblica è stata imboccata con qualche dolcetto, rassicurata con una ninna nanna, ma sostanzialmente intortata. Gli stress test, le prove di sforzo che dovevano reclamizzare la robustezza del sistema bancario, si sono rivelati una bufala. I tentativi di imporre regole, rigore, limiti etici, al rischio che le banche amavano intrepidamente affrontare, sono stati aggirati con un gioco di lobby. E in questo mestiere le banche francesi sono state all’avanguardia. Come ha ricostruito il “Wall Street Journal”, due anni fa un banchiere francese si recò a Washington per convincere il capo del Fondo monetario di allora, Dominique Strauss-Kahn, che le sue preoccupazioni sulla salute del sistema bancario europeo erano infondate. Ci riuscì. Ma questa mossa ebbe solo l’effetto di far sottovalutare il rischio, e di rallentare la messa in campo di misure di emergenza.
Oggi le tre maggiori banche francesi, Bnp, Crédit Agricole e Société générale sono tra le cause della crisi che ha paralizzato il sistema nervoso bancario europeo, dove il denaro non circola più, cosicché venerdì 21 ottobre i depositi della Bce di Francoforte hanno ospitato “overnight” una montagna di denaro, per la cifra record di 255 miliardi di euro (oltre i 100 è già zona rossa), che nessuno si fida di mettere altrove. Non basta: anche nelle riunioni con la European banking authority per definire gli stress test di quest’anno, racconta sempre il “Wall Street Journal”, francesi e tedeschi hanno ottenuto , contro il parere di altri paesi, di non contemplare la variante “default di un paese dell’eurozona”. Tutte le maggiori banche europee hanno passato i test: eppure, oggi Dexia è fallita. Retroscena inquietanti. Fatto sta che la francese oggi a capo del Fmi, Cristine Lagarde, ha cambiato idea rispetto al suo predecessore, sentenziando che le banche europee si devono mettere in cerca di 200 miliardi per rafforzare il loro capitale.
Ma chi li pagherà? Si accettano scommesse: a pagare saranno ancora una volta i cittadini contribuenti. E questo dopo che un fiume di denaro pubblico è già defluito nei forzieri bancari: tra settembre 2008 e la fine del 2010 nell’Europa a 27 i governi hanno messo a disposizione del mondo del credito 4.285 miliardi di euro, di cui 1.240 effettivamente erogati, per 300 miliardi sotto forma di ricapitalizzazioni. La parte del leone l’hanno fatta le banche inglesi, tedesche e francesi. Non è bastato.
Oggi l’incubo di tutti si chiama Grecia: il debito greco acquistato dalla Francia è di 92 miliardi di dollari, quello in mano alla Germania 69 miliardi (contro i 20 per il Regno Unito e i 43 per gli Usa), allegramente comprati per via dei tassi più che succulenti. Ora è veleno iniettato in vena. “La verità è che, secondo i criteri di Basilea 2 (il corpus di regole e parametri adesso aggiornato in Basilea3, ndr.) acquistare titoli del debito pubblico non comportava un aumento del rischio per le banche”, spiega l’economista Marcello Messori. Poi lo scenario è cambiato, e il rischio di default di Atene ha diffuso il panico. “Se si fosse intervenuti sul focolaio greco subito, oggi non ci troveremmo di fronte alla prospettiva di dover pagare molto di più: gestire il salvataggio bancario ci costerà molto più caro”, conclude Messori. Oltre che di titoli greci le banche si sono imbottite di bond del debito pubblico un po’ di tutti i paesi. Salvarle vuol dire salvare gli Stati. Ed è per questo che la mission è sostenuta da tutti i governi, Merkel e Sarkozy in prima fila, e che su questo obiettivo si potrà chiedere l’intervento del Fondo salvastati, l’Efsf.La ricerca dei capitali necessari, infatti, per le banche da sole non sarà facile. Il mercato non si fida, e in molti casi ha già fatto la sua parte: dall’inizio dell’anno ha scucito per aumenti vari più di 47 miliardi (7 miliardi per Intesa, 16 per Commerzbank). Ma, in particolare per le grandi banche “di sistema” non c’è scampo: dovranno portare al 9 per cento il coefficiente patrimoniale. La richiesta ha scatenato l’ira del primo banchiere di Germania, Josef Ackermann: “Questa gente”, ha detto il Ceo di Deutsche Bank rivolgendosi al governo di Berlino, “ci attacca in tutti i modi. Ma noi siamo ben capitalizzati e rifiutiamo a tutti i costi interventi statali”. A smentirlo “Handelsblatt”, il quotidiano finanziario tedesco, prevede che non solo la Francia, ma anche la locomotiva tedesca sia “in procinto di perdere la tripla A”. I più accorti investitori americani ne hanno già tratto le debite conseguenze: da maggio allo scorso settembre, calcola l’agenzia Fitch, i fondi americani hanno ritirato dalle banche tedesche il 23 per cento dei loro investimenti.
Certo, la locomotiva tedesca ancora fila che è una bellezza. A fine settembre, record dal 1991, c’erano meno di 2,8 milioni di disoccupati in Germania. Ma il risparmiatore tedesco è teso per la crisi delle sue banche: Commerzbank oggi vale in Borsa sugli 8 miliardi, 17 in meno di quattro anni fa. Peggiori le prestazioni di Deutsche Bank: l’istituto di Ackermann è valutato sui 25 miliardi, ma nei suoi tempi d’oro ne valeva oltre 60. Débâcle che condividono con i risparmiatori di tutta Europa.
Non tutti naturalmente concordano che occorra svenarsi per le banche: “I regolatori hanno dato molto peso al requisito del capitale ma è un errore: è insito nel sistema capitalistico che la banca lavori con poco capitale proprio e intermediando quello altrui. Per me è più importante il fattore liquidità”, afferma Mario Sarcinelli, presidente di Crediop ed ex banchiere centrale. Anche Messori avanza dubbi, ma con un diverso obiettivo: “Se l’Unione europea fosse intervenuta per evitare il fallimento dei paesi periferici con azioni credibili per i mercati, oggi il settore bancario non avrebbe necessità di salvataggi. E l’occasione ci avrebbe fatto fare un passo avanti verso un’istituzione europea per la gestione del debito pubblico”.
Le resistenze del fronte bancario sono comprensibili: non solo il capitale costa caro, ma certe volte richiede passaggi dolorosi, per esempio un cambio di gruppo di controllo, come è avvenuto per l’italiana Popolare di Milano. Più grave è che si minaccino effetti disastrosi sulla crescita, già minata, dell’economia, e che si prevedano, come ha fatto recentemente la Confindustria, brusche riduzioni del credito per le imprese causate dalle nuove regole. Argomenti che un report della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea smonta senza difficoltà: modestissimo impatto sul prodotto, grandissimo beneficio per la sicurezza del sistema, ha appena scritto. Dunque, la medicina del nuovo capitale andrà inghiottita. “Non dico che le banche siano perfette, ma sono il sistema cardiocircolatorio del capitalismo: non si può non intervenire”, riflette Sarcinelli.
Già, ma allora chi deve intervenire? “Le regole non sono ancora fissate, ma prima dovranno intervenire i privati, solo dopo lo Stato, e infine il Fondo”, spiega Stefano Micossi, direttore generale dell’Assonime, “di certo questa è la prima mossa per affrontare successivamente senza effetti catastrofici la ristrutturazione del debito greco”, aggiunge. Infatti nel mirino dei regolatori, Bce in testa, sono soprattutto le banche il cui peso ha un forte impatto su una singola economia nazionale, o contemporaneamente su più economie, come per esempio è Unicredit. “Le banche grosse sono molto pericolose”, conferma un banchiere che segue il dossier da cui dovranno arrivare le nuove regole. “La prima misura da prendere sarà un “capital surcharge”, cioè un requisito di capitalizzazione più alto. La seconda misura sarà più delicata, perché dovrà disegnare i meccanismi di intervento in caso di difficoltà: per esempio si potranno tagliare dei segmenti di attività per evitare il contagio, cacciare il management, farle addirittura a pezzi, ma salvare i rapporti creditizi, cioè i risparmiatori”. E’ questo il boccone indigesto che i superbanchieri abituati a fare il bello e il cattivo tempo, temuti dai governi come vero contropotere non vogliono inghiottire: essere salvati e nello stesso tempo ingabbiati.

Fonte: Espresso del 31 ottobre 2011

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