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Perchè Tremonti ha ragione a voler finalmente rivedere i trattati europei

A seguito della dichiarazione del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, secondo cui occorre rinegoziare i patti con l’Unione europea s’è riacceso il dibattito su un tema rimasto assopito. Il dibattito si è finora mantenuto a un livello improduttivo, con gli euroentusiasti che danno degli euroscettici a chi sostiene che il Trattato di Maastricht presenta gravi difetti perché fondato su ipotesi che non hanno retto alla prova dei fatti: esso avrebbe infatti dovuto propiziare l’unione politica dei paesi membri e il loro sviluppo. La tesi che gli euroentusiasti è che l’Ue sta facendo passi avanti, facendo finta di ignorare che questi passi muovono verso vincoli sempre più stringenti, deflazionistici e incapaci di rimuovere i difetti: o i paesi in difficoltà e i candidati a esserlo prima o dopo, come l’Italia, si comportano bene oppure verranno abbandonati alla loro sorte. La loro conclusione è che sia molto meglio prendersi la sorte decisa dalle “aquile” che quella, considerata per definizione peggiore, che sancirebbe il mercato globale per i “maiali” (Pigs). Poiché il sostegno concesso ai deboli per non spaccare l’Unione suscita reazioni nei forti, “l’idea d’Europa” trova sempre meno consensi negli uni e negli altri. E’ lecito domandarsi chi tra le due fazioni contrapposte vuole veramente l’Ue.
I problemi di finanza pubblica nell’Ue sono il risultato del trasferimento delle sovranità monetarie nazionali senza il parallelo trasferimento di quelle fiscali. Se ci fosse stata anche l’unione fiscale la crisi greca, irlandese e portoghese non si sarebbero potute verificare. Gli accordi di Schengen non integrati dalla direttiva Bolkenstein di liberalizzazione dell’offerta di servizi nella sua versione originaria sono stati utili, ma non risolutivi: i contratti salariali nazionali ancora prevalgono e, ora, si contesta anche la qualità dell’offerta di lavoro in occasione dell’ondata di immigrazione. La circolazione dei capitali non funziona perché sopravvivono legislazioni nazionali frammentate e contradditorie. La politica fiscale “compensativa” è modesta, non orientata allo sviluppo comune e lasciata in mano agli stati membri; ora si sostanzia sempre più nell’imposizione di vincoli restrittivi, applicati meccanicamente, che hanno dato vita all’Europa “delle regole”, con pochi ideali.
Il primo dovere dei gruppi dirigenti di un paese il quale, non certo per sua sola volontà, non converge verso l’unione politica europea è quello di tutelare gli interessi nazionali. Il problema che dovrebbe essere oggetto di messa a punto è se questi interessi trovano o meno accoglienza nell’attuale assetto istituzionale europeo o se va richiesta una modifica migliorativa; la quale, se negata, porterebbe a una denuncia dei Trattati vigenti. La risposta dei fautori della permanenza a ogni costo nell’attuale Ue è che, se dovessimo solo ipotizzare questo sbocco, il paese andrebbe allo sbaraglio. Mi distinguo da loro perché ho più fiducia di quanta essi non abbiano nelle capacità di adattamento e di ripresa degli italiani e nelle possibilità di stabilire nuove alleanze internazionali (come gli altri paesi europei vanno facendo, in barba alla politica estera comune). I paesi europei avvantaggiati dall’attuale assetto istituzionale sarebbero i più interessati, di fronte a una spaccatura dell’Europa, a riequilibrare i patti per non perdere i benefici.

Fonte: Il Foglio del 21 aprile 2011

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