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Perché serve una super manovra come nel ’92

di Mario Baldassarri

Un governo “di transizione” con il solo scopo di fare una legge di bilancio per il 2020 che consenta di evitare l’aumento dell’Iva e finanziare le spese obbligatorie con una manovra da 30 miliardi di euro (visto che 23 miliardi servono solo per non far aumentare l’Iva) sarebbe un governo di corto respiro che rinvierebbe alla prossima primavera tutti i problemi. La crescita potrebbe passare dallo zero allo 0,4% ma la nostra finanza pubblica rimarrebbe in condizioni fragili e precarie, con in più le varie crisi che si profilano sul piano internazionale ed europeo.

Il vero rischio sarebbe allora quello di spostare alla prossima primavera la fine della legislatura e il ricorso a nuove elezioni politiche. Pertanto, l’unica vera alternativa alle elezioni a ottobre è quella di un governo di legislatura. Ma prima di parlare di chi lo voterebbe in Parlamento, di chi lo formerebbe e di chi lo guiderebbe è assolutamente prioritario indicare quale “programma” deve proporre e realizzare il più rapidamente possibile a partire proprio dalla prossima legge di bilancio 2020. Ecco allora che si pone un problema di “quantità” e di “qualità” della manovra. Le manovre degli ultimi anni, con in testa quella del governo Lega-M5S, sono state di “quantità” minuscola e di “qualità” pessima. È evidente infatti che con manovre pari o sotto all’1% del Pil non si va da nessuna parte perché gli effetti sulla crescita non possono che essere modesti ed effimeri.

È come sperare di far correre un Tir con il motore di un Fiat 500 prendendo a debito pochi litri di benzina. Per di più la “qualità” è stata pessima. Si è aumentata la spesa pubblica corrente, si sono aumentate le tasse ai tartassati e si sono ridotti gli investimenti pubblici. Pertanto, se si vuole sul serio spingere la crescita e l’occupazione in modo strutturale e permanente occorre una “quantità” pari a circa il 4-5% del Pil, cioè 80-100 miliardi di euro. Più o meno come fece il governo Amato nel 1992 a fronte di una gravissima crisi della lira e il governo Prodi nel 1997 per entrare nell’euro. Questa volta si tratterebbe di non uscire dall’euro ed evitare il baratro di un autolesionistico nazionalismo economico, finanziario, valutario con conseguente isolamento europeo e internazionale. Si tratta cioè di rimettere l’Italia al posto che le compete in Europa, senza battere i pugni, ma avendo le carte in regola per proporre e partecipare pienamente ai passi in avanti verso una integrazione “politica” europea.

Certo, occorre anche chiamare l’Europa a una seria politica dell’immigrazione, nella consapevolezza però che la vera emergenza italiana non sono più le poche migliaia di disperati che cercano di entrare, ma gli oltre centomila giovani italiani che ogni anno escono ed emigrano all’estero. È evidente che una manovra di queste dimensioni non può essere fatta in deficit. Annunciare tagli di tasse e aumenti di spesa per 50 miliardi senza indicare dove si prendono i soldi, magari con il retropensiero di fare tutto a deficit, è un pericoloso masochismo. In poche settimane l’aumento dei tassi sui titoli del debito pubblico brucerebbe sul nascere le stesse velleità degli annunci. Dall’altra parte però non basta neanche indicare cinque temi di confronto senza dare né numeri, né tempi. Per questo si deve partire dalle coperture. Una mirata spending review può dare un potenziale di risorse in due specifiche voci di spesa (acquisti e fondi perduti) per circa 60 miliardi. Una seria revisione delle tax expenditure potrebbe liberare altri 40 miliardi.

Quelle coperture, senza un euro in più di deficit e di debito, consentirebbero l’eliminazione totale e definitiva delle clausole di salvaguardia e i restanti 80 miliardi potrebbero essere usati per 40 miliardi di sgravi Irpef sui redditi medio-bassi con una riforma Irpef a 3 aliquote (20% fino a 50mila euro, 30% tra 50 e 100mila euro e 40% sopra i 100mila euro); 20 miliardi potrebbero andare a riduzione del cuneo fiscale con azzeramento dell’Irap e 20 miliardi ad aumentare gli investimenti pubblici per infrastrutture materiali, piano per il dissesto ambientale e idrogeologico, messa a norma di scuole, ospedali ed edifici pubblici, investimenti immateriali su nuove tecnologie e formazione di capitale umano, cioè scuola e università. Gli effetti sull’economia sarebbero di una crescita strutturale sopra il 2% e una disoccupazione sotto l’8%, con più equità e coesione sociale. Il deficit pubblico si azzererebbe in due anni.

Il debito pubblico scenderebbe di oltre il 4% all’anno rispetto al Pil. Questo sì che sarebbe un governo del “vero cambiamento”. “Questo” governo sarebbe pienamente legittimato a durare fino a fine legislatura, incassando a medio termine i risultati positivi di una politica economica seria e strutturale, dopo aver avuto il coraggio di realizzarla sin da subito. Qualcuno ha detto che i numeri dell’aritmetica parlamentare ci sono. Ma i numeri del bilancio pubblico, dell’economia, delle famiglie che devono arrivare a fine mese e delle imprese che devono far quadrare i bilanci dove sono? E chi vuole andare a votare a ottobre è consapevole di questi numeri?

Fonte: da IL SOLE 24 ORE del 23 agosto 2019

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