• sabato , 23 Novembre 2024

Perchè l’ Alitalia è in picchiata

Veleni. Il capo è come un imperatore bizantino alla caduta di Costantinopoli: inaccessibile e dispotico, circondato dalla sua corte di ex-ferrovieri. Sospetti. Nessuno si fida più di nessun altro. L’azienda è un bunker pieno di telecamere, occhi che spiano, orecchie che ascoltano. Manovre di potere. Sono i piloti che comandano, che fanno e disfano carriere, sono una cupola. E sono loro che oggi puntellano il vertice, e lo possono mollare domani.

Quante sono voci, quante malevolenze, quante verità? Di certo, l’autunno di Giancarlo Cimoli, l’ingegnere che due anni fa aveva raccolto come ultima sfida della sua carriera quella di portare fuori dalle secche l’Alitalia, non poteva essere peggiore. Il pareggio promesso nel 2006 è fuori portata e rinviato a chissà quando, vista la perdita di 221 milioni di euro appena registrata dai conti semestrali, che ha fatto fare un ruzzolone al titolo in Borsa, già depresso da tempo. Il clima aziendale è a dir poco logorato, elemento non secondario per un’azienda che deve erogare servizi ai clienti. La politica che ancora lo proteggeva ha cominciato a smarcarsi tra sarcasmi e accuse di inefficienza. Il sindacato lo vorrebbe vedere morto per via di relazioni industriali fatte di molto bastone e niente carota. Così la parabola di Cimoli, che aveva strappato la riconferma fino alla prossima primavera al ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa, potrebbe chiudersi in anticipo. O con una buonuscita milionaria (si favoleggia di una richiesta di 8 milioni di euro, ma Alitalia non conferma) o con l’accettazione da parte del presidente-amministratore delegato di un ridimensionamento dei poteri: ma il suo rifiuto a cedere deleghe ha fatto finora cadere uno a uno tutti i candidati per fargli da direttore generale. Tra promesse mancate e conflittualità crescente, l’Alitalia si ritrova dunque ancora una volta nell’impasse, come è già accaduto tante volte in questi ultimi anni. Pur avendo questa volta, è bene ricordarlo, un bel miliardo di euro in cassa. Ma nessun partner disposto ad impalmarla.

Fly, la bella farfalla Leggera, una società solo per il volo, senza il piombo nelle ali di un grande apparato amministrativo. Il progetto di Cimoli per far decollare Alitalia Fly era ambizioso: non si trattava solo di far dimagrire la vecchia Alitalia, ma anche di darle un altro Dna, più vicino a quello di una compagnia low-cost, flessibile nei costi e nelle strategie. Quindi, societarizzazione di una serie di attività (il centro informatico, la manutenzione) e cessione a Fintecna, che le avrebbe ricapitalizzate e spinte sul mercato. Apriti cielo. “Cimoli aveva promesso che le società non sarebbero state smembrate, che sarebbero rimaste nel perimetro del gruppo”, si scalda Fabrizio Solari, segretario generale della Filt-Cgil. Lo sciopero che lunedì 18 settembre ha riaperto la conflittualità in azienda – cancellando 67 voli su 267 – è stato fatto anche per questo, oltre che per ottenere l’apertura di una trattativa per il contratto. Il sindacato sa di avere sponda nel governo, e questo è un elemento nuovo nel gioco di potere con il vertice della compagnia. E ha deciso di usarlo.

Tavolo contro tavolo Era convenuto: il governo si sarebbe occupato di Alitalia in autunno. L’intesa era stata sollecitata dal titolare dei Trasporti Alessandro Bianchi, che aveva avuto l’impegno di Enrico Letta, sottosegretario a palazzo Chigi, e anche del ministro dell’Economia. Per preparare il terreno, prima dell’estate Bianchi aveva messo al lavoro sui conti e le strategie della compagnia una commissione di sua fiducia. Nel cahier de doléances c’era il ritardo rispetto alle altre compagnie europee, la debolezza sulle rotte di lungo raggio, ritenute le più redditizie, l’incomunicabilità totale tra sindacato e management; da parte della compagnia, si lamentava l’eccesso di disponibilità del nostro mercato ad aprirsi alle compagnie low-cost, i piranha del cielo. E l’irrimediabile assenteismo dei dipendenti.

Quando, invece di rispettare i tempi, Padoa-Schioppa ha dato via libera a Cimoli per un altro anno, Bianchi è stato preso in contropiede. E non ha nascosto il suo malumore. Intanto agli stinchi del governo ha cominciato a lavorare il sindacato: al tavolo istituito al ministero dei Trasporti i confederali non volevano gli autonomi, e così è stato creato un altro tavolo, chiamato ‘cabina di regia’, alla Presidenza del Consiglio, dove alla fine tutti avranno la loro seggiola, in un’apoteosi di sigle sindacali, di moltiplicazione di interlocutori e di spezzettamento di competenze.

Ma dove vanno i passeggeri Mentre questa barocca compagnia si appresta ad andare in scena, il business di Alitalia mostra segni di sofferenza in un segmento che fino a poco tempo fa non dava grandi preoccupazioni. Quello nazionale. Se il primo trimestre di quest’anno era andato male per via degli scioperi di gennaio (80 milioni di ricavi in meno, e 40 di utile operativo in meno), si attendeva un recupero di rotta nei mesi successivi. Invece no. “Finora il 2006 ha registrato un rallentamento, ma sempre progresso è”, afferma Piero Ceschia, direttore finanza e strategy di Alitalia: “Con quasi 12 milioni di passeggeri in sei mesi, in crescita rispetto al 2004 e al 2005, anche l’indice di riempimento degli aerei è salito dal 68 al 72 per cento”. E pure dal lato dei costi qualche passo si è fatto: “Il ‘costo per sedile reso disponibile’ doveva scendere del 24 per cento entro il 2008 secondo le promesse fatte al mercato, è sceso del 10 per cento nel 2005, e anche nel 2006 si ridurrà di qualche punto”, afferma Ceschia. Cosa ha congiurato contro? Una voce pesante è stato il carburante: i contratti che in Alitalia ‘coprono’ dal rischio di aumento del prezzo del barile riguardano solo il 50 per cento dei consumi delle macchine, e nel frattempo la quotazione è impazzita. “A fine 2006 prevediamo di raggiungere un risultato netto vicino a quello dello scorso anno. Tenendo conto che il carburante ci è costato solo nel semestre 50 milioni di euro in più, è già un buon risultato”, afferma Ceschia.

L’allarme vero però non è dovuto agli sceicchi. A far scattare l’emergenza e a spingere gli strateghi della compagnia a rimettere le mani nel piano sono i risultati sulle rotte nazionali (vedi grafico a pagina 161). Mentre sul fronte internazionale ci si difende, e intanto vengono ‘riconfigurati’ i grandi aerei che fanno le rotte a lungo raggio per migliorare l’offerta di posti per i viaggiatori di business (la nuova classe Magnifica con i Boeing 767 esordirà nella primavera 2007), la parola d’ordine è: reagire all’assalto delle low-cost. Il primo segnale arriva sul piano delle tariffe: Alitalia sta lanciando tariffe di 19 euro sul Milano-Roma (sola andata), 29 su Roma-Torino, ma anche sul Roma-Londra, oppure 89 euro su Milano-Madrid (andata e ritorno) o 239 euro per Roma-New York (sempre andata e ritorno). Livelli che solo i capitani delle ultra competitive compagnie a basso costo si possono permettere.

D’altra parte ben sei compagnie con queste caratteristiche si sono affacciate da noi nel giro di un anno e mezzo. Oltre a Ryanair e a Easyjet, le regine del low-cost europeo, hanno esordito Myair, Blu Express, Air Malta, e Interstate airlines, una compagnia olandese con sede a Maastricht, che ha messo la sua base a Reggio Calabria. Impensabile fino a poco tempo fa. “È la dimostrazione che l’Italia è un mercato facile da penetrare”, osserva Giancarlo Zeni, direttore del marketing e network di Alitalia: vale a dire che la condizione di presunto monopolio di Alitalia non esiste più, e si vede. “Mediamente ci sono almeno tre alternative di scelta dappertutto”, dice Zeni. La concorrenza però morde anche perché spesso ha come alleati gli aeroporti. “Si assicurano la redditività con Alitalia, e poi offrono tariffe ridotte ai nuovi arrivati”, si lamentano dalla ex compagnia di bandiera. Di fatto, oggi l’Alitalia vanta ancora una fetta del 54 per cento dei ricavi del mercato domestico, ma è una quota che bisogna difendere con i denti.

Mandarini o piloti? C’è poi la partita con i dipendenti. Nel 2004 la gestione Cimoli toccò il momento di maggior lustro quanto impose il cosiddetto ‘contratto Lufthansa’: una strigliata alle regole di ingaggio e blocco degli stipendi, con l’obiettivo di aumentare la produttività. “Per ora abbiamo solo dato”, protesta Solari dando voce al malumore della categoria. Ma Cimoli da questo orecchio non sente. Gli unici con cui è stato disposto a dialogare sono i piloti, e questo al resto della ciurma non è mai andato giù. L’Anpac, il sindacato piloti più forte, lo ricambia: “L’Alitalia ha un problema di sistema, non ci si può aspettare che un nuovo amministratore delegato possa cambiare subito le cose”, afferma il suo presidente Fabio Berti: “D’altra parte, si chiede ad Alitalia di garantire la mobilità nel paese ma poi la si sottopone a continue pressioni politiche”, aggiunge.

Di fatto, i piloti sono gli unici a non avere sofferto della stretta. Usciti volontariamente in 150 e con gli stipendi più alti (7-8 mila euro netti al mese), ora la categoria è certa di nuove assunzioni. “I nuovi entrano con stipendi di 2.800 euro al mese omnicomprensivi”, afferma Berti. Non del tutto vero. In più c’è l’indennità volo giornaliera concessa da Cimoli “per diminuire l’assenteismo”: 120 euro al giorno. Pagabili se un pilota vola: molto invitante. E, dopo dieci anni, si apre la possibilità di uno scatto di carriera formidabile, quello al grado di comandante, premiato con il raddoppio dello stipendio. Soldi e prestigio. D’altra parte senza di loro Alitalia Fly non potrà mai esserci.

Fonte: L'Espresso el 22 settembre 2006

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