• giovedì , 21 Novembre 2024

Perche’ il manifesto di Schauble non puo’ valere per tutta l’Europa

Facile da prevedere e puntuale come la scadenza di una cambiale è giunto il giudizio del ministro dell’Economia tedesco, Wolfgang Schäuble, sui segnali di ripresa in Europa che egli considera una conferma della correttezza della politica di austerità seguita. Prudenza avrebbe voluto che egli attendesse la trasformazione dei segnali in risultanze concrete sulla crescita del pil e dell’occupazione, ma la politica è rapida nell’impossessarsi dei segnali, conscia che non paga pegno per gli errori di previsione e non rifonde i danni commessi.
Non sorprende che la Scuola della Bocconi abbia asseverato questa valutazione, dato che le conseguenze nefaste delle sue idee e della sua influenza sull’economia italiana non sono diverse da quelle della Scuola di Chicago sull’economia globale (ma non, come disse Jean Paul Fitoussi, su quella americana, perché gli Stati Uniti esportano idee che producono, ma non si sognano di utilizzarle a casa). Il corollario di questo giudizio è che l’Europa ha fatto il suo dovere e che la colpa sia dei paesi i quali non hanno perseguito il rigore fiscale e fatto le riforme, mentre la Germania le ha realizzate in “due ondate”: la prima riformando i sussidi di disoccupazione, razionalizzando settore pubblico e welfare e ottenendo la collaborazione tra imprenditori e sindacati per rendere il lavoro più flessibile; la seconda contenendo la spesa pubblica.
L’idea che non sfiora neanche lontanamente questa scuola di pensiero è che i trattati europei, per dirla come Giuseppe Guarino suggerisce, sono meccanismi biogiuridici i quali, partendo dalle condizioni oggettive culturali e istituzionali dei diversi paesi di cui gli accordi prevedono il rispetto, producono le conseguenze di un’Europa a due (o molte) velocità, qualcosa che gli ideali democratici respingono. L’idea che l’euro non sia un’area monetaria non ottimale (si legga che ha caratteristiche di diversità strutturali profonde) non porta a uno sviluppo di mercato ordinato per tutti, ma solo per quelli “più bravi”, che quindi lo meritano, mentre gli altri che non si adeguano è giusto che paghino perdendo sovranità e rispetto (leggi, ultimo, lo sciocco paragone tra l’Italia e la Ferrari del commissario Olli Rehn) e vengano esclusi dal godere del patrimonio di civiltà che gli stessi tedeschi hanno contribuito ad accumulare nei secoli.
In breve, un imbarbarimento. Né questa scuola di pensiero è sfiorata lontanamente dall’idea che la politica europea che riceve gli elogi di Schäuble abbia fondamenti illegittimi perché attuata emanando regolamenti, come il 1466/97, che contrastano con le norme d’ordine primario previste dai trattati e che il rispetto degli accordi è a fondamento del funzionamento dell’Unione europea. Nel ricorrere alla sua Corte costituzionale per bloccare le scelte di politica monetaria della Banca centrale europea di Mario Draghi, la Germania ha seguito la strada di richiedere l’interpretazione esatta degli accordi europei, una via che l’Italia non si sogna di seguire per chiedere il rispetto dell’oggetto pattuito (si veda l’art. 3 del trattato di Lisbona, ex art. 2 del Testo unico europeo) e della forma giuridica necessaria per modificarlo.
Poiché la via della dimostrazione della bontà di una politica economica è inevitabilmente ideologica, mentre la via giuridica presenta indubbie oggettività, la via della riforma europea non può che essere questa. Ciò non toglie che l’Italia debba fare anche le riforme interne che consistono nel ridurre il peso del settore pubblico, tagliando le spese e riducendo in parallelo le tasse, ossia riformando la Pubblica amministrazione. Se Olli Rehn ritiene che ciò consista nel rispetto del rapporto del 3 per cento tra deficit pubblico e pil, indipendentemente dal fatto che si ottenga aumentando le tasse (ad esempio l’Iva) invece di riformare lo stato riducendone le spese, ribadisce l’errore di fondo della politica di austerità che sta causando un’ondata di antieuropeismo e antigermanismo preoccupante. Siamo giunti al punto di porre il quesito di chi siano veramente gli antieuropeisti.

Fonte: Il Foglio del 22 settembre 2013

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