L’ultimo sussulto dei mercati è stato innescato dal governo tedesco, tanto bravo a gestire la crisi all’interno quanto maldestro nei suoi movimenti di politica estera, come si è visto dal disastro combinato con la crisi greca. Stavolta i tedeschi hanno affermato che i dissesti non devono essere tamponati solo con i soldi dei contribuenti, ma anche i creditori debbono essere coinvolti. Principio giustissimo, ma non sempre quello che è giusto è anche opportuno, quanto meno se si sbandiera con dichiarazioni ufficiali. Dopo quella dichiarazione i grandi investitori hanno cominciato a vendere i titoli dei paesi considerati più a rischio, i Cds (cioè gli strumenti di copertura dal rischio di fallimento degli Stati) sono schizzati in alto, il differenziale di rendimento rispetto al Bund tedesco è andato alle stelle. Il che, tra l’altro, vuol dire far piovere sul bagnato, perché paesi già in crisi sono costretti a spendere molto di più per finanziarsi innescando un perverso circolo vizioso.
Il movimento è stato così preoccupante che i leader ancora riuniti a Seoul per il G20 hanno tentato di riparare il danno diffondendo una dichiarazione secondo cui la nuova disciplina sarebbe in ogni caso scattata solo per i titoli di nuova emissione e quindi fino a quando non fosse entrata in vigore non c’era ragione di vendere. Ma l’effetto sui mercati è stato assai modesto.
Così i paesi più in crisi si sono trovati di nuovo nel ciclone,più di tutti Portogallo,Grecia
e Irlanda. Quest’ultima, in particolare, è alle prese con una crisi gravissima delle sue banche, travolte dalla vicenda dei mutui subprime e con urgente necessità di essere massicciamente ricapitalizzate. Il mercato ritiene che l’Irlanda, che ha già il rapporto deficit/Pil a uno stratosferico 32%, non ce la possa fare, a meno che non giungano in soccorso l’Unione europea con suoi Fondi di salvataggio,l’Efsf destinato ai paesi dell’euro e l’Efsm che può intervenire per titti i 27 paesi membri, e il Fondo monetario. Si parla della necessità di almeno 60 miliardi di euro.
Gli interventi di questi Fondi, però, sono condizionati a piani concordati con il paese interessato che deve impegnarsi ad attuare determinate misure. In pratica, una sorta di commissariamento dello Stato in questione, che deve dunque rinunciare alla sua sovranità nel decidere la politica economica. Di solito si chiedono tagli pesantissimi alla spesa pubblica, alle pensioni e al welfare in genere. Ma il caso dell’Irlanda è particolare: a Dublino si chiederebbe invece di aumentare le imposte sulle imprese, oggi bassissime (al 12,5%), e malviste da molti degli altri Stati europei che ritengono si tratti di concorrenza sleale. Per questo l’Irlanda fa resistenza ad accettare gli aiuti pressantemente offerti dagli altri europei, Germania in testa. Offerta che non deriva da un empito di altruismo: il timore è che, come quasi sempre in questi casi, il contagio dilaghi e diventi incontrollabile.
Al momento Dublino sta trattando con Fmi e Ue ma solo sul problema delle banche, rifiutando ostinatamente l’aiuto per il paese: le elezioni sono alle porte e la maggioranza già traballante non vuole incassare questa palese sconfitta. Ma l’impressione è che quest’ultima resistenza sia destinata a non durare.
Perchè Dublino non vuole gli aiuti
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