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Perchè Atene parla al mondo

Non bisogna sorprendersi della sensibilità dei mercati al caso greco. Quello che emerge da Washington – tra il dibattito politico americano e i meeting del Fondo monetario – è infatti che non c’è mai stata nel mondo tanta preoccupazione per i rischi causati dagli eccessi di debito pubblico. Per la Grecia in un certo senso si tratta del peggiore e del migliore dei tempi possibili. Il tasso di crescita del Paese cade più del previsto mentre i tassi d’interesse continuano ad aumentare. In tali condizioni non si riesce a vedere l’orizzonte del rientro del rapporto tra debito e Pil. Infatti il Governo greco ha ammesso che sarà difficile tornare a finanziarsi sui mercati entro un anno. Al tempo stesso i rischi di un contagio da default verso altri Paesi sono così alti che Atene può sentire attorno a sé una fredda ma concreta solidarietà.
In un incontro tra funzionari greci e americani, questi ultimi hanno ammesso di temere che in caso di default greco i mercati escano dal torpore con cui hanno tollerato finora il rischio sovrano degli Usa. Washington non è rassicurata dal fatto che i mercati abbiano girato la testa perfino quando, la scorsa settimana, l’Amministrazione è arrivata a due ore dalla chiusura di ogni attività pubblica per mancanza di accordo sul bilancio. Ieri a Washington in un seminario del think-tank Brookings, il commissario europeo Olli Rehn ha ribadito che Bruxelles «non considera la ristrutturazione del debito greco un’opzione praticabile». In un colloquio dopo il seminario Rehn ha spiegato che «c’è un alto rischio che una ristrutturazione possa provocare una reazione a catena di contagio attraverso i sistemi bancari europei, e questo rovinerebbe non solo l’economia greca ma anche la ripresa economica europea. Il contagio finirebbe inevitabilmente per attaccare anche il debito sovrano di altri Paesi».
Riflessioni sull’interdipendenza globale delle politiche fiscali, esemplificata dal rischio greco, sono affrontate dal G-20. Ma considerazioni più profonde sono ostaggio di un dibattito politico sospeso a metà tra i problemi di stabilizzazione e quelli di una più profonda revisione dei diritti fondamentali dei cittadini. Come dimostra il confronto politico americano, spinto dal Tea party, minore è la stabilizzazione fiscale e maggiore rischia di essere la revisione dei diritti, a cominciare dall’assistenza sanitaria per gli anziani.
Nulla di più politico dunque. Al tempo stesso, lasciare la strategia fiscale in ostaggio al confronto parlamentare è rischioso. Gestori di fondi internazionali fanno già i conti col rischio default americano in ragione della straordinaria conflittualità politica a Washington. Anche il presidente Obama ha usato toni di parte nel descrivere i propri progetti fiscali per trarre vantaggio dalle proposte ancor più radicali dei repubblicani. Le notevoli analisi bipartisan di Alice Revlin e poi della commissione Bowles-Simpson sono finite nel tritacarne del Congresso che subordinerà ogni decisione alla campagna presidenziale del 2012. D’altronde così funziona la democrazia.
La stessa Italia offre uno degli esempi più illuminanti della profondità delle conseguenze politiche del debito. Perché il debito sia sostenibile nel lungo termine, a parità di garanzie dei cittadini, sarebbe necessario invertire lo sviluppo demografico. Il numero degli immigrati dovrebbe raddoppiare solo per stabilizzare il numero degli abitanti, triplicare per mantenere il livello della popolazione attiva e quintuplicare per conservare lo stesso rapporto tra lavoratori e pensionati. Ipotesi che sembrano esplosive nel dibattito politico italiano, ma che suggeriscono di considerare i problemi fiscali in una più ampia cornice sociale in cui le politiche dell’istruzione, in particolare degli immigrati, potrebbero rivelarsi il vero pilastro dell’azione di governo. Per capire la valenza storica dell’emergenza fiscale basta dire che il livello medio del debito nei Paesi avanzati è del 20% superiore a quello del 2008 e che già nel 2012 è previsto un aggiustamento medio dei deficit pari al 2%, il più elevato da 40 anni. Quelli europei degli anni successivi saranno ancora superiori. L’aumento della spesa per interessi crea scontento tra cittadini che pagano più tasse senza che aumentino i servizi.
In questo quadro il test greco assume un significato ancora più vasto di quello, già straordinario, della tenuta dell’area euro. Se la Grecia dovesse fallire sarebbe il primo Paese avanzato a farlo dal 1948. In tutto il mondo si aprirebbe uno scenario con conseguenze imprevedibili sulla lealtà del rapporto tra Stati e cittadini. Che si tratti di un problema di democrazia lo dimostra il fatto che dietro al caso greco si nascondono due incognite nella reazione dei cittadini europei. I contribuenti dei Paesi creditori potrebbero a un certo punto preferire di incassare le perdite conseguenti a un default piuttosto che finanziare per un tempo non prevedibile Paesi che faticano troppo a risanarsi. Allo stesso modo i cittadini dei Paesi debitori potrebbero pensare che vale la pena di tagliare il debito – in parte nelle mani di investitori stranieri – anziché sopportare un decennio di austerità. Le conseguenze concrete sarebbero tragiche e per nulla risolutive. Lo stesso ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, riconosce che in caso di default greco anche i titoli tedeschi non sarebbero più sicuri. Ma una volta che l’ipotesi di ristrutturazione del debito esce dalla lampada, il dibattito politico potrebbe impadronirsene, dare spazio a tentazioni populiste e nascondere le conseguenze della scelta. Anche in questo caso la sfida fiscale mette a nudo le nuove fragilità delle democrazie nazionali nel contesto globale.
Per questa ragione è tanto importante l’esito della crisi europea. Un successo nella risposta comune dei Paesi dell’euro aprirebbe la strada a una nuova visione positiva dell’interdipendenza e della condivisione delle sovranità, salvando non solo l’euro ma forse anche la democrazia.

Fonte: Sole 24 Ore del 16 aprile 2011

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