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Per mettere fine al precariato serve un ritorno al concetto di apprendistato

Secondo uno studio della Uil nei 30 mesi, che intercorrono tra l’inizio del 2008 e il primo semestre del 2010, dei 27,4 milioni di contratti di lavoro attivati (a prova del fatto che il mercato del lavoro è stato parecchio dinamico nonostante le crisi) il 73,4% sono precari (a termine, collaborazioni, ecc.). Solo il 26,6% costituiscono buone forme di inserimento lavorativo: 22.9% a tempo indeterminato e 3,7% come apprendistato.
I dati derivano da una rielaborazione delle comunicazioni obbligatorie sull’invio dei rapporti agli uffici per l’impiego. I contratti cessati nello stesso periodo sono stati 24,5 milioni (48,4% hanno riguardato donne), di cui il 38,1% nel Sud. Ovviamente non si tratta – se non in misura ridotta – di nuova occupazione, ma di riconferme di rapporti già esistenti che, nel caso di contratti a termine, possono essere più di uno nel medesimo anno.
La tendenza è confermata se osserviamo l’ultima parte del periodo considerato: nei primi sei mesi dello scorso anno, infatti, i rapporti deboli sono stati pari al 77,4%. I dati dell’indagine non sono stati contestati dal Ministero del Lavoro, ma sollevano parecchi dubbi se li confrontiamo con le statistiche dello stock degli occupati, le quali continuano a certificare che più dell’80% dei lavoratori dipendenti è impiegato a tempo indeterminato.
In ogni caso sembra evidente che – i dati di flusso lo indicano con chiarezza – i nuovi rapporti iniziano utilizzando qualcuna delle forme di flessibilità introdotte negli ultimi anni. La questione merita una riflessione: perché vi è tanta flessibilità in entrata? Immaginiamo che gran parte dei rapporti precari prima o poi tendano a stabilizzarsi (un fenomeno di cui sarebbe utile dare conto), ma questa osservazione non è una risposta alla domanda che angoscia i giovani e le loro famiglie.
Anche laddove le spiegazioni non evidenzino dei veri e propri abusi alla ricerca di una manodopera a cui riconoscere salari più bassi e un quadro di diritti assolutamente inadeguato, i motivi di queste pratiche, sempre più diffuse, sono tanti e diversi: i rapporti temporanei costituiscono, in primo luogo, una sorta di periodo di prova molto lungo rispetto a quelli, solitamente inadeguati, previsti dai contratti di lavoro.
Probabilmente, rivedere le norme sul periodo di prova rendendole più realistiche e congrue rispetto alle esigenze delle imprese, potrebbe alleggerire il ricorso a forme precarie e a termine, connesse all’andamento dei processi produttivi. Oggi è la domanda – spesso non uniforme nè continuativa – ad orientare la produzione e ad imporre organici a geometria variabile, dipendenti dalle commesse acquisiti e dalle loro condizioni di mercato.
Il che entra in contraddizione con assetti di organici stabili e fissi. Non è un caso che, negli anni dal 2000 al 2007, nonostante il livello modesto della crescita economica, l’occupazione è aumentata in modo ininterrotto. Le aziende si sono fidate ad allargare gli organici proprio perché esse potevano contare su assunzioni a termine, mentre qualunque datore – che fosse stato costretto a caricarsi di manodopera aggiuntiva destinata ad essere in esubero dopo aver espletato le lavorazioni per cui era stata assunta – probabilmente avrebbe rinunciato alla commessa.
E’ evidente, allora, che – a fronte di tali esigenze – ogni possibilità di avvalersi di rapporti di lavoro più flessibili e meno vincolanti è raccolta dalle imprese, allo scopo non già di propositi di maggiore sfruttamento, quanto piuttosto nella logica di meglio rispondere alle esigenze di competitività. Come è possibile contemperare esigenze – quella dell’impresa di avere a disposizione forza lavoro flessibile; quella dei lavoratori di poter contare su di una continuità lavorativa – che possono sembrare in conflitto tra di loro?
Come venire incontro ai problemi dei giovani, costretti a subire lunghi anni di incertezza? Va rilanciato l’apprendistato che è pur sempre un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ma che dispone degli elementi di flessibilità occorrenti. Occorre utilizzare – nei momenti di picco produttivo – tutte le potenzialità disponibili in termini di organizzazione e di orari di lavoro e, se del caso, di lavoro in somministrazione. Se questa esperienza si consolidasse, anche il rapporto di lavoro all’interno delle società di somministrazione tenderebbe a stabilizzarsi.
Infine, bisogna rendersi conto del fatto che le imprese cercano la mobilità in entrata per averla anche in uscita. Se la risoluzione del rapporto di lavoro fosse considerata un evento fisiologico, non ci sarebbe bisogno di tutta quella pletora di strumenti di flessibilità che sono stati individuati negli ultimi anni. Il rapporto a tempo indeterminato sarebbe praticamente quello normale. Ecco perché, prima o poi, si dovrà riparlare dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Con buona pace degli struzzi che continuano a nascondere la testa sotto la sabbia. In fondo anche Emma Marcegaglia se ne è accorta, dopo che, per anni, la Confindustria aveva archiviato il problema.

Fonte: Occidentale del 7 marzo 2011

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