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Per celebrare l’Unità d’Italia serve una riflessione seria non la festa nazionale

Per celebrare il 150° anniversario dell’unità d’Italia il Governo ha deciso di proclamare festa nazionale la giornata del 17 marzo. Si tratterà di una celebrazione una tantum limitata solo all’anno in corso, ma sarà – a quanto è dato conoscere – una festività con tutti i crismi: aziende chiuse (salvo ovviamente quelle a ciclo continuo e i servizi di pubblica utilità) e retribuzione corrente. La vicenda ha sollevato le obiezioni della Confindustria che si è lamentata per gli oneri derivanti dalle minore produzione e per i maggiori costi, messi a carico delle aziende in un momento di difficoltà come l’attuale.
Ha cominciato l’Unindustria di Bologna, la stessa che sta trattando – il che non le fa onore – un modus vivendi con la Fiom. Poi avevano protestato altre strutture territoriali e di categoria denunciando gli effetti dei tagli alla produzione (i produttori di ceramiche hanno stimato un danno pari a due milioni di euro). Pochi giorni dopo è scesa in campo Emma Marcegaglia sottolineando il rischio di “dare un segnale fortemente dissonante rispetto alle azioni che, faticosamente, le parti sociali stanno mettendo in atto per fare nuovi investimenti e salvare posti di lavoro in Italia”. L’associazione delle imprese ha fatto altresì notare che, essendo il 17 marzo un giovedì, si creeranno i presupposti per un “ponte”.
Probabilmente, nella reazione della Confindustria vi sono elementi riconducibili ad una difesa di ufficio delle aziende. Nel 2011 – è stato fatto osservare – vi saranno minori opportunità di fare dei “ponti”, perché alcune festività ‘strategiche’ cadranno di domenica. E’ difficile, però, non dare ragione alla Confindustria, soprattutto in vista di una ripresa dell’attività produttiva attesa da tanto tempo e finalmente arrivata, sia pure con contraddizioni ed incertezze.
Sono veramente singolari, invece, le argomentazioni che si sono sentite a sostegno della festività senza lavoro ma con retribuzione annessa ed erogata. La veterosinistra – che ormai dà segni di vita solo in queste occasioni – e la Cgil hanno fortemente biasimato la posizione della Confindustria, dal momento che, per loro, anche le festività infrasettimanali servono allo scopo di contrastare lo sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo.
Qualche stupore – almeno in chi scrive – hanno sollevato invece i commenti di altri settori di opinione pubblica, di taluni organi di stampa e di esponenti del centro destra. In sostanza, ne hanno fatto una questione di patriottismo, come se la Confindustria non avesse compreso l’importanza della ricorrenza e sottovalutasse il significato della stessa unità nazionale. Insomma se il 17 marzo non si lavora (e si è pagati ugualmente) l’amor patrio sarà più garantito. Non importata se il patriottismo si tradurrà in un gitarella fuori porta con relativo “ponte” per rifarsi di un calendario ostile. L’Italia sembra chiedersi in coro: ma se si lavora che festa è? Ma l’establishment è pervaso da un fremito più complesso.
Diciamoci la verità: nelle celebrazioni dell’unità d’Italia c’è un sovraccarico di retorica che ha un preciso significato politico. Le forze politiche di centro sinistra, che rappresentano i veri poteri forti di questo Paese, hanno riscoperto il Risorgimento in chiave anti-Lega. Così non vi è nessun impegno di riflessione critica su quel fondamentale evento della nostra storia nazionale, riflessione che una classe dirigente – a 150 anni di distanza – non dovrebbe aver paura di affrontare. Eppure molti dei problemi di oggi – a partire dalla questione meridionale – prendono le mosse da lì. Ma da noi ci si accontenta di una rappresentazione agiografica. E si bacchetta sulle dita chiunque – compresa la Confindustria – non sta al gioco. Anche solo per un momento.

Fonte: Occidentale del 7 febbraio 2011

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