• giovedì , 26 Dicembre 2024

Per aiutare i giovani va riequilibrato il mercato del lavoro e modificato l’art.18

Anche a Mario Draghi capita che delle sue affermazioni si prenda solo la parte che serve e si dimentichi il resto. Cosi del discorso pronunciato dal Governatore al Forex i giornali di domenica (soprattutto quelli orientati a sinistra) hanno ripreso le considerazioni sui giovani, sulla loro condizione di precarietà e sulla inadeguatezza dei loro salari di ingresso, fermi in termini reali da un decennio. Non è la prima volta che Draghi sottolinea questo problema: “E’ uno spreco di risorse – ha affermato – che avvilisce i giovani e intacca gravemente l’efficienza del sistema produttivo”. Magari, la prossima volta farebbe bene ad indicare qualche soluzione concreta, ad avanzare delle proposte operative. Anche perché il Governatore – sia pure in modo implicito – ha ben individuato il cuore della questione quando ha ricordato la segmentazione del mercato del lavoro italiano “dove vige il minimo di mobilità ad un estremo, il massimo di precarietà all’altro”.
Viene da chiedersi, allora, se il massimo di precarietà sul lato dell’occupazione dei giovani è anche conseguenza diretta del minimo di mobilità sul versante opposto. E se così è, almeno in parte, i problemi andranno risolti insieme visto che “in Italia la crescita stenta da quindici anni” mentre “a beneficio della crescita dell’economia andrebbe un assetto normativo ispirato pragmaticamente all’efficienza del sistema”.
Se si vuole fare davvero qualche cosa di serio a favore dei giovani è necessario riequilibrare il mercato del lavoro rimuovendo gli estremi che lo contraddistinguono. Si può anche continuare ad ignorare il problema per motivi di opportunità politica o di pregiudizio ideologico, ma le norme che regolano il licenziamento individuale, ai sensi dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, costituiscono un impedimento di rilievo per il mondo delle imprese, un ostacolo all’incremento dell’occupazione, un impedimento per la crescita dimensionale delle aziende nonché un handicap sul versante della competitività, essendo l’obbligo di reintegra previsto soltanto dalla nostra legislazione.
Se un datore di lavoro è indotto ad interrogarsi a lungo prima di procedere ad una nuova assunzione, ciò significa che il sistema non funziona. L’esperienza dimostra che i livelli di occupazione hanno conosciuto, fino a tutto il 2007, un incremento importante ed ininterrotto per almeno otto anni soltanto a seguito dell’introduzione di regole che consentivano alle imprese di avvalersi di manodopera con rapporti di lavoro “flessibili”. L’esame della sequenza storica degli andamenti del mercato del lavoro prima della crisi evidenzia, se ancora ve ne fosse bisogno, la singolarità del caso italiano, specie se viene messo a confronto con altre esperienze e valutato nel contesto degli altri indicatori economici. Iniziamo ad osservare l’arco di tempo compreso tra il 1992 e il 1997 (l’anno in cui vennero assunte le prime misure di riforma del mercato del lavoro secondo regole e criteri di flessibilità).
A fronte di una crescita media annua significativa del Pil, è possibile notare un andamento critico del mercato del lavoro nel senso che diminuiva l’occupazione ed aumentava la disoccupazione. In parallelo, era in crescita la produttività del lavoro. In tale periodo, le imprese preferivano continuare ad effettuare investimenti labour saving piuttosto che far fronte ai picchi produttivi ricorrendo a nuove assunzioni. La realtà economica di quei tempi – invero non troppo lontani – produceva degli effetti con tratti apparentemente paradossali. L’Italia era un Paese ad intensa innovazione di processo (solitamente a risparmio di lavoro), mentre più modesta era l’innovazione di prodotto. Secondo i dati Ocse, dall’inizio degli anni ’70 fino alla fine degli anni ‘90, nel settore privato, il capitale fisso per addetto era aumentato del 37% negli Usa, del 125% in Italia. A questa tendenza si accompagnò il fenomeno della frantumazione del tessuto delle imprese.
Nel settore manifatturiero – sono dati della Banca d’Italia – la quota di occupati con più di 500 addetti era del 31% nel 1971; era sceso al 19% nel 1991 e al 15% nel 1996. Su questa realtà (che non si è più modificata sul piano della struttura produttiva) hanno influito positivamente i provvedimenti di riforma del mercato del lavoro, tanto il “pacchetto Treu” del 1997 quanto la legge Biagi del 2003. Il segno del cambiamento è emerso con chiarezza nel quadriennio 2000-2003: l’occupazione è cresciuta mediamente dell’1,6% (in valori assoluti) e dell’1,1% (come unità di lavoro equivalenti), la disoccupazione è diminuita, sempre in media, dello 0,6%. Nel contempo, la produttività è calata mediamente dello 0,3%. Ciò, sia in rapporto alle caratteristiche della nuova occupazione (si vedano i dati sull’elasticità dell’impiego), sia per un altro motivo molto ovvio: lo sblocco del mercato del lavoro fa sì che si produca la medesima quantità di beni (il Pil cresce, infatti, mediamente dello 0,8%) con un numero maggiore di occupati.
Nel periodo 2003-2006, infatti, sono proseguiti gli standard positivi per quanto riguarda il mercato del lavoro (più occupazione, meno disoccupazione, maggiore produttività), a fronte di una dinamica un poco più sostenuta dello sviluppo. I rapporti di lavoro flessibili, tuttavia, hanno interessato soprattutto i giovani. E sono stati loro ad essere espulsi dai processi produttivi in seguito alla crisi. Gli eventi hanno cambiato radicalmente questo scenario. I ‘check up’ sulla disoccupazione (siamo a livello dell’8,7%) dimostrano che dovranno trascorrere alcuni anni prima che si inverta il ciclo e riprendano le assunzioni. I giovani sono quelli più colpiti a fronte di un lieve incremento per altri gruppi d’età. La disoccupazione giovanile, nei Paesi Ocse, ha raggiunto tassi tra il 20 e il 25% (del 42% in Spagna e poco meno del 30% in Italia) e deve essere affrontata con programmi di scolarizzazione, formazione e tirocini allo scopo di preparare le giovani generazioni alle sfide degli anni a venire. La quasi totalità dei lavori persi sono quelli di lavoratori con contratti precari. E sono più uomini che donne.
Per non dover attendere troppi anni per riassorbire queste perdite occorre mettere in campo politiche del lavoro che vadano oltre quell’emergenza che il Governo italiano – ormai lo riconoscono tutti, persino gli avversari più faziosi – ha affrontato in maniera adeguata ed efficace. Quali sono le politiche da adottare ? Occorre aiutare in primo luogo coloro che hanno perso il lavoro e rischiano condizioni di povertà. E’ altresì indispensabile impedire l’incancrenirsi di casi di disoccupazione di lunga durata in attesa che possa ripartire la domanda di manodopera. Vanno altresì adottati programmi a favore del lavoro giovanile e di arricchimento delle competenze dei disoccupati attraverso la formazione ed individuando con cura i gruppi di disoccupati che rischiano di uscire completamente dal mercato del lavoro. Vanno fortemente potenziati i contratti ad alto contenuto formativo come l’apprendistato.

Anche quando ripartirà in modo più sostenuto la ripresa non vi sarà, in parallelo, un corrispondente incremento dell’occupazione, perché le aziende dovranno recuperare la forza lavoro in cassa integrazione. E se provassimo a dare una scossa ? Sarebbe il caso di offrire, in via sperimentale fino al 31 dicembre 2012, alle imprese la possibilità di assumere a tempo indeterminato lavoratori in mobilità potendo avvalersi, in caso di licenziamento che non abbia carattere discriminatorio, di una tutela di carattere solamente risarcitorio. La medesima possibilità dovrebbe essere riconosciuta alle imprese operanti nelle regioni meridionali.

Ma è ora di pervenire ad una revisione strutturale della disciplina di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, consentendo anche al datore di lavoro soccombente in giudizio l’opzione di versare una penale allo scopo di evitare la reintegra del dipendente nel posto di lavoro, affidando al giudice di stabilire al misura di tale penale entro un tetto di 15 mensilità.

Così, la disciplina del licenziamento individuale sarebbe più conforme a quanto è previsto negli altri Paesi europei.

Fonte: Occidentale del 27 febbraio 2011

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