di Giuliano Cazzola
Le proposte dell’ideologo previdenziale della Lega, Alberto Brambilla, per introdurre la famosa quota 100 come somma di età e contributi per andare prima in pensione rischiano di anticipare di poco la quiescenza ma di ridurre in linea generale i trattamenti – Di natura assistenziale la pensione di cittadinanza.
Man mano che si concretizzano le proposte del governo giallo-verde in materia di pensioni emergono non solo differenti posizioni tra i due partiti della maggioranza, ma anche soluzioni per lo meno strambe, tanto da smentire il povero Polonio, il quale non riuscirebbe ad intravvedere nella loro follia la logica che trovava in quella del principe Amleto. In sostanza, la revisione della riforma Fornero (quota 100 come somma dei requisiti anagrafici e contributivi o 41 anni di versamenti a prescindere dall’età), di antica matrice leghista, si aggiunge al sarchiapone della pensione di cittadinanza, inventata e proposta da Beppe Grillo nelle ultime battute della campagna elettorale. La prima misura, di carattere previdenziale, vuole favorire le persone che sono entrate presto nel mercato del lavoro, ci sono rimaste a lungo in modo generalmente continuativo e sono in grado di presentarsi, tutt’altro che anziani, all’appuntamento con l’agognata quiescenza.
La seconda è un classico provvedimento di natura assistenziale che, per l’importo garantito (un trattamento mensile di circa 800 euro lordi), incentiverebbe – al di là dei costi – l’evasione contributiva. Fin qui, non c’è nulla di nuovo sotto il sole; non sarebbe la prima volta che delle contorte alleanze politiche impongono una sommatoria delle rivendicazioni di ciascuna forza che vi partecipa. Del resto, la coalizione di centro-destra aveva inserito nel programma il progetto di elevare a mille euro mensili il livello della pensione minima. Il fatto è che, più si approfondiscono i problemi attraverso lo stillicidio di frammenti di proposte, ancor più si divarica l’impostazione dei “verdi” rispetto a quella dei “gialli”. Soprattutto da quando è sceso in campo il prof. Alberto Brambilla, da sempre ideologo previdenziale del Carroccio: una persona di sicura competenza (probabilmente entrerà a far parte dell’esecutivo), in mezzo ad massa di suonatori ad orecchio del pettine e la carta velina.
Brambilla è il patron di Itinerari previdenziali, una fondazione che presenta ogni anno un interessante rapporto il quale tiene insieme, con un certo rigore, tutti gli aspetti riconducibili ad un sistema di sicurezza sociale e al suo finanziamento. Da vigoroso uomo del Nord, il nostro è molto critico dell’andazzo assistenziale italiota che rappresenta i pensionati come un esercito di poveri in canna. E, quindi, ritiene che il Paese non sia fuori linea per quanto riguarda la c.d. previdenza, ma che abbia troppo piombo nelle ali per colpa della spesa assistenziale. Sono idee parecchio discutibili, ma non è questa la sede per ridiscutere il falso mito della separazione dell’assistenza dalla previdenza. Ci interessa piuttosto ricordare che Brambilla sostiene che il riequilibrio dei conti pubblici deve avvenire a spese dell’assistenza.
Leggiamo un brano del Quinto Rapporto di Itinerari previdenziali: “per contro la spesa per assistenza, come si è evidenziato più volte, rischia di andare fuori controllo anche a causa della eccessiva competizione politica che la incrementa di anno in anno (si veda il recente aumento delle quattordicesime mensilità e l’introduzione del REL) senza peraltro armonizzare le norme di accesso e prevedere forme di controllo efficaci attraverso il casellario centrale dell’assistenza, mai partito, che potrebbe generare migliore allocazione delle risorse e risparmi”. Come si concilia una siffatta affermazione con l’introduzione di una bizzarra ed onerosa pensione di cittadinanza? Il pensiero di Alberto Brambilla risulta ancora più chiaro da un altro punto di vista: ‘’Sono quindi preferibili politiche – è scritto nel Quinto Rapporto – che tendano a premiare il “lavoro”, la “fedeltà contributiva” e le lunghe carriere per cui l’indicizzazione dell’età di pensionamento alla aspettativa di vita resta un requisito irrinunciabile per gli equilibri del sistema (soprattutto per le pensioni di vecchiaia con carriere brevi e per quelle assistenziali), ma occorre altresì reintrodurre elementi di flessibilità in uscita ripristinando le caratteristiche della legge n.335/1995.
A tal fine si dovrebbe in prima battuta sganciare l’anzianità contributiva dall’aspettativa di vita (una caratteristica solo italiana introdotta con la riforma Fornero) prevedendo un massimo di 41 anni e mezzo di contribuzione con un massimo di 3 anni di contributi figurativi e un’età minima di 63 (poi divenuti 64, ndr) anni d’età. È scarsamente equo (e, si potrebbe dibattere, forse anche poco costituzionale) immaginare che un lavoratore possa accedere alla pensione con solo 20 anni di contributi e 67 anni di età (magari facendosi integrare la prestazione per via della modesta pensione a calcolo) e che un altro con oltre il doppio dei contributi e senza rischi di integrazioni a carico dell’erario, debba lavorare per oltre 43 anni (nel 2019)’’. Non vorremmo forzare la mano, ma in tali valutazioni si percepisce anche un giudizio di carattere sociologico, se non addirittura etico nei confronti del bravo lavoratore padano “che la sua pensione se la è guadagnata”.
Ma il bello deve ancora venire. A chi scrive non piace partecipare al gioco delle coperture con il quale si cerca di incastrare la nuova maggioranza. Soprattutto se si parla di pensioni. Tanto più che negli ultimi giorni lo stesso Brambilla ha reso note alcune proposte per quanto riguarda lo “stop” alla legge Fornero che hanno meravigliato chi scrive. Il saccheggio della riforma del 2011 verrebbe realizzato così: i requisiti di quota 100 e dei 41 anni (c’è chi dice 41 e mezzo) sono i punti di riferimento certi. Ma potrebbe optare per il primo solo chi è in possesso di un’età minima di 64 anni. In ambedue i casi – a quanto pare – farebbero anzianità tre anni al massimo di contribuzione figurativa. Inoltre, per le nuove pensioni, il periodo intercorrente tra il 1° gennaio 1996 e il 31 dicembre 2011 sarebbe calcolato con il metodo contributivo anche per coloro ai quali la riforma Dini aveva garantito la permanenza nel retributivo (quanti, alla fine del 1995, avevano maturato almeno 18 anni di anzianità contributiva).
In sostanza, quello che non si ebbe il coraggio di fare allora (cioè passare tutti al calcolo contributivo pro rata dal 1° gennaio 1996) sarebbe attuato ora in modo sostanzialmente retroattivo. Sfugge la logica di un’impostazione siffatta (peraltro meno conveniente dell’utilizzo dell’Ape sociale, che invece sarebbe abolito), rivolta ad anticipare di poco la possibilità di andare in quiescenza a spese della adeguatezza dei trattamenti, in linea generale ridotti. Vuol dire che tra pochi mesi assisteremo a grandi manifestazioni raccolte dietro un grande striscione con la scritta a carattere cubitali: “aridetece la Fornero”.
Fonte: da www.firstonline.info - 9 giugno 2018