di Giuliano Cazzola
Parlando di Riforma pensioni su molte questioni non sono d’accordo con Alberto Brambilla, anche se riconosco la sua competenza. Il Rapporto annuale di Itinerari previdenziali è uno strumento utile, anche per chi non condivide, come il sottoscritto, talune analisi e proposte ricorrenti. La mia stima in Brambilla è aumentata in questi mesi, perché, come un nuovo “piccolo eroe di Harlem”, ha avuto il coraggio di infilare il dito nella crepa maligna della muraglia per scongiurare che essa cedesse di schianto sotto la pressione delle ondate demagogiche sollevate dai caporioni della maggioranza giallo-verde e mandate a schiantarsi contro la sgangherata diga dei conti pubblici.
Non sono in grado di sapere fino a che punto le sue posizioni avessero ispirato le politiche della Lega in materia di pensioni. Certo, a stare alle smentite ricevute, è difficile attribuirgli quel ruolo di decisore che lui stesso ha lasciato intendere d’avere. A meno che Brambilla non sia come quegli agenti speciali incaricati, nelle spy story, di missioni pericolose, ma abbandonati a se stessi nel caso che il controspionaggio nemico li abbia individuati. Anche in queste ultime ore, il nostro ha ribadito le sue critiche alla cosiddetta pensione di cittadinanza, incassando un “Brambilla esprime un’opinione personale” da parte di Giggino Di Maio: una considerazione che si porta appresso un possibile veto del capo politico del M5S nei confronti di un’eventuale candidatura dello stesso Brambilla alla presidenza dell’Inps quando scadrà il mandato di Tito Boeri.
Eppure, dal palco delle “giornate del lavoro” della Cgil, a una domanda sulla proposta della pensione di cittadinanza, Brambilla – suscitando la reazione immediata di Di Maio – si è dichiarato “totalmente contrario”: “Se fossi un artigiano, un commerciante, un imprenditore – ha aggiunto – non verserei più, tanto se poi devo prendere 780 euro… Spacchiamo il sistema”. Tutto ciò premesso, sarebbe opportuno che gli strateghi grillini facessero un po’ di chiarezza sulla platea che vorrebbero coinvolgere nella sciagurata operazione che loro propongono.
Innanzitutto, c’è una significativa differenza tra pensioni e pensionati: le prime sono in numero assai maggiore dei secondi. È quindi plausibile che il nuovo livello di prestazione sia ragguagliato ai pensionati il cui trattamento (anche nel caso che percepiscano più pensioni) sia inferiore a quel livello. Per chiarire il concetto bastano due cifre: le pensioni fino a una volta il minimo sono 8 milioni (su 23 milioni previdenziali e assistenziali in totale); i pensionati sono 2,2 milioni (su 16,3 milioni).
Ma c’è un altro aspetto da chiarire; pure esso ha un mastodontico effetto sulle finanze pubbliche. La Corte dei Conti ha calcolato che dei 3 milioni e 318 mila pensioni integrate al minimo, 493 mila pensioni sono assistite anche da maggiorazione sociale mentre 2,8 milioni sono integrate al minimo ma non beneficiano di maggiorazione. Le maggiorazioni sociali vengono riconosciute a persone in condizione di disagio che dispongono solo del reddito da pensione. I dati dell’Osservatorio Inps indicano che il numero delle pensioni integrate al minimo si è ridotto dagli oltre i 5 milioni dei primi anni 2000 a poco più di 3 milioni del 2018; l’importo medio dell’integrazione rappresenta il 43% del valore complessivo della pensione media percepita dai beneficiari di integrazione, pari a 498 euro mensili.
Nel 2002 è stato previsto che ai titolari di pensione di importo non superiore al trattamento minimo sia corrisposto un ammontare aggiuntivo da erogare a dicembre. Tale prestazione viene corrisposta se il reddito personale del pensionato non sia superiore a una volta e mezzo l’importo del trattamento minimo e, nel caso in cui sia coniugato, oltre a questa condizione, se il reddito complessivo dei coniugi non sia superiore a tre volte l’importo del trattamento minimo. Il numero delle pensioni previdenziali che godono di maggiorazioni è passato da circa 900 mila dei primi anni 2.000 a 450 mila circa nel 2018, con un importo medio mensile complessivo pensionistico pari a 609 euro: la maggiorazione pesa su questo importo circa per il 20%.
Questi pochi dati dimostrano che i costi dell’operazione pensione di cittadinanza possono variare in misura notevole a seconda della platea che si intende tutelare. Il percorso che porta a individuare i casi più disagiati è tracciato da tempo (si pensi al milione di lire di Berlusconi che andò a una platea selezionata e sotto forma di maggiorazione sociale). Ma quando si pretende di garantire (a pochi o a tanti) un trattamento minimo sostanzialmente superiore alla media delle pensioni di vecchiaia sorrette da almeno 20 anni di contributi ed erogate a 67 anni di età, si rischia – come sostiene Brambilla – di “spaccare” il sistema.
Il Sissidiario.net del 17/9/2018
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