Di Luigi Paganetto
Le nuove regole nascono dalla volontà di rispondere alle generali critiche di rigidità ed austerità legate al Patto sospeso fino ad oggi. A posteriori rimangono in piedi le osservazioni di chi ha fatto subito notare che la scelta di affidare alla Commissione la determinazione della traiettoria di riduzione del debito nei 4-7 anni in base alla sua sostenibilità, consegna una forte discrezionalità. Il commento di Luigi Paganetto, presidente della Fondazione Tor Vergata
Dopo l’approvazione da parte dell’Ecofin, il dato di fatto è che le nuove regole per il Patto di stabilità, riprendono, sia pure con molti emendamenti, la proposta della Commissione dove pur mantenendo invariate le soglie del deficit al 3% e del debito al 60% del Pil, adotta come punto di riferimento un piano finanziario pluriennale di aggiustamento di medio periodo (4-7 anni) diretto a determinare la traiettoria del debito. Risulta perciò confermato l’approccio di aggiustamento macroeconomico di medio periodo, principale novità del Patto, con una traiettoria, regolata dalla Dsa (Debt Sustainability Analysis), fondata sulla spesa primaria netta che deve essere inferiore al tasso di crescita potenziale dell’economia.
La sfida, per il nostro Paese, è di realizzare gli avanzi primari di cui è già stato capace, in passato. Anche se andrà visto con molta attenzione il testo ufficiale, già è chiaro che i Paesi con un debito superiore al 90% dovranno ridurlo di 1% l’anno, contro lo 0,5% degli altri ed, inoltre dovranno far scendere il disavanzo all’1,5% con un aggiustamento da realizzare in 4/7 anni. Gli emendamenti al testo della Commissione sono molti a cominciare da quello voluto dal governo tedesco di una riduzione automatica del deficit annuo dello 0,5% per i Paesi che violano la regola massima del 3% di deficit. Ma sono stati accolti anche gli emendamenti di Francia e Italia per un’attenuazione del percorso di aggiustamento (ma solo fino al 2027) che tenga conto nel valutare il deficit( non è chiaro in che misura) delle maggiori spese per interessi, spese militari e per il clima.
Le nuove regole, nascono, come é noto, dalla volontà di rispondere alle generali critiche di rigidità ed austerità legate al patto sospeso fino ad oggi, per via del Covid. A posteriori rimangono in piedi le osservazioni di chi ha fatto subito notare che la scelta di affidare alla Commissione la determinazione della traiettoria di riduzione del debito nei 4-7 anni in base alla sua sostenibilità le consegna una forte discrezionalità, tant’è da far apparire addirittura più equa la vecchia e tanto osteggiata regola meccanica del 3% e del 60%. Ed è, peraltro, una discrezionalità che se, sul piano politico, rappresenta un potere, per altro verso consegna alla Commissione la responsabilità di disegnare traiettorie virtuose di rientro dal debito.
Non sembrano invece fondate le critiche di un’eccessiva rigidità delle nuove regole per via dei paletti di riduzione del deficit e del debito, come se fosse troppo rapida una riduzione in 40 anni del nostro debito pubblico al 100% del Pil. Non c’è dubbio che e è estremamente difficile per tutti i Paesi intervenire sullo stock di debito accumulato senza danneggiare la crescita ma i paletti servono a rassicurare i paesi che pur in presenza delle vecchie regole rigide ne hanno criticato un’applicazione troppo blanda o flessibile. Quel che più conta è che, alla fine, la contrattazione politica che ha dato avvio alle nuove regole ha trovato un compromesso che, da oggi al 2027 , tiene conto di un’esigenza di sostenibilità del tutto comprensibile , in un mondo dominato da un’incertezza radicale, per dirla con Mervyn King.
Non c’è stato invece, ed è qui il limite maggiore , alcun tentativo visibile di cercare un accordo a favore di politiche fiscali coerenti con gli obbiettivi di politica economica di un’Europa impegnata in una sfida competitiva il cui successo riguarda tutti i 27 paesi dell’unione. Un atteggiamento che non tiene conto, dello straordinario cambiamento in atto e della caduta del tasso di crescita dei paesi dell’eurogruppo ,a partire dalla Germania, che dovrebbe spingerli a varare una politica che consenta un adeguato sostegno agli investimenti privati oltre che pubblici ,a cominciare da quelli per il clima.
Ma non tutto si può fare attraverso l’accordo di stabilità e sviluppo. In quest’ottica, dopo il balzo d’iniziativa comune europea del Next Generation, andrebbe ripreso l’impegno europeo in materia di investimenti partendo però dal modello Juncker molto più attento alla redditività rispetto quanto è avvenuto nell’intervento post pandemico legato, in prevalenza, all’esigenza di un sostegno alla caduta della domanda. L’approccio dell’Inflation Reduction Act Usa può essere d’insegnamento.
(Formiche del 27/12/2023)
Fonte: Formiche del 27/12/2023