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Parma, le urne schiacciate dai debiti e il divorzio amaro tra Pdl e borghesia

Fallita la grandeur edilizia, «patto implicito»tra industriali e Pd. Ma il mondo rurale evocato dai grillini guadagna terreno.
Dicono che l’incertissimo ballottaggio elettorale per le amministrative di Parma passerà alla storia per il derby dei comici, Beppe Grillo vs Gene Gnocchi, che lo chiuderà venerdì sera. Ed è senz’altro possibile. Ma il rinnovo del sindaco della città ducale segna anche un passaggio doloroso nella storia del centrodestra italiano. Al primo turno il partito di Berlusconi, che aveva dominato con accorgimenti vari la scena cittadina per 15 anni, ha racimolato solo il 4% e al secondo turno sta seriamente valutando di votare per il grillino Federico Pizzarotti.
Parma, dopo il Veneto e Milano, è il terzo flop della relazione incompiuta tra Pdl e borghesie locali del Nord, in tutte e tre le situazioni il centrodestra ha provato a costruire qualcosa di duraturo e ha fallito. Giancarlo Galan si era messo alla testa di un blocco modernista che sognava un Veneto fatto di grattacieli e grandi opere ma è stato lo stesso Berlusconi a sacrificarlo sull’altare del rapporto con la Lega e il blocco neoborghese che il governatore aveva costruito si è sciolto come neve al sole in 48 ore. Con Letizia Moratti il centrodestra aveva cercato di mettere solide radici dentro la vera borghesia milanese. Dopo cinque anni di sofferenza, alle amministrative del 2011, la rottamazione della giunta è stata certificata (anche) dal divorzio con la borghesia della cerchia dei Navigli che ha preferito l’arancione Giuliano Pisapia a un secondo mandato della Moratti.
Infine Parma e l’ipotesi di fondare il patto tra politica, liste civiche e establishment locale sui grandi lavori e sulla prefigurazione di una città a volumetrie extralarge e a grande impiego di mattoni. La grandeur immobiliare scandita da due giunte Ubaldi e una Vignali ha prodotto invece lo sconquasso della finanza pubblica. Numeri precisi ancora non ce ne sono. Nel 2010 i debiti delle sole società controllate dal Comune ammontavano a 455 milioni ma ora si stima che il rosso di un ipotetico bilancio consolidato oscilli tra i 500 e i 600 milioni. La cosa singolare è che Parma nel mondo è conosciuta per la pasta, il Mulino Bianco, il formaggio e il prosciutto, però a comandare le operazioni per tre lustri sono state le gru e i ponteggi. Il blocco dei costruttori (i Pizzarotti, i Manara, i Bonatti) si è dimostrato più forte degli industriali del Cibus e ha imposto la sua agenda nonostante il 60% del Pil di Parma venga dall’agroalimentare. Se adottassimo il metodo della storia fatta con i «se» sarebbe interessante chiedersi che ruolo, addirittura continentale, avrebbe potuto giocare Parma come uno dei simboli del lifestyle italiano.
Così non è stato e adesso i cittadini sono costretti a votare con il retrogusto. I più informati sanno che il giorno dopo l’insediamento il nuovo sindaco dovrà chiamare le banche e ristrutturare il debito perché le casse languono, alcune controllate stanno per fallire e ci sono imprese che reclamano di essere pagate per evitare di portare i libri in tribunale. E anche nella ricca Parma cominciano a chiudere i negozi del centro.
I 600 milioni di debito sono stati accumulati con un meccanismo di finanza creativa realizzato grazie alle competenze professionali di Pietro Vignali (commercialista), a uno stuolo di consulenti strapagati e ad amicizie romane che fungevano da copertura politica. «Per esternalizzare il debito che veniva scaricato sulle società partecipate il Comune ha venduto i suoi terreni a se stesso», ha raccontato Marco Severo, un giornalista locale che ha dedicato alla vicenda un libro di 300 pagine («Sconvocati»). Così si è prodotta una voragine, sono state avviate opere pubbliche sovradimensionate rispetto ai bisogni della città e si è creata una fitta rete di favori e corruzione (un manager del Comune prendeva tre stipendi contemporaneamente) che è stata scoperchiata solo nell’estate del 2011. È stata la magistratura locale, prima colpendo figure minori ed episodi tutto sommato secondari e via via aumentando l’attenzione sulle società controllate dal Comune.
Con un meccanismo che abbiamo visto negli anni di Tangentopoli all’iniziativa dei giudici si è sommata la reazione della società civile e ogni volta che si riuniva il consiglio comunale i parmigiani davano vita a un corteo di protesta e di richiesta di dimissioni. Tutto ciò non poteva non incrinare il patto perverso instauratosi tra economia e politica, così l’establishment locale, vistosi bruciato il progetto di una «Parma XL» ha preso le distanze dal sindaco pasticcione che pure aveva scelto.
E qui arriviamo ai giorni nostri e al ritorno sulla scena del Pd. Capita la situazione che si era creata con il divorzio tra establishment e centrodestra Pier Luigi Bersani e Vasco Errani hanno giocato la carta dell’usato sicuro, al secolo Vincenzo Bernazzoli, attuale presidente della Provincia. In palio c’è la riconquista della città più borghese dell’Emilia e non è roba da poco. E infatti in questi giorni Bernazzoli sta recitando la parte di chi sa dove mettere le mani. Il messaggio ai parmigiani è chiaro: con me potete sperare in un atterraggio morbido, in virtù dei miei rapporti politici e istituzionali posso negoziare con le banche un prestito-ponte ed evitare la bancarotta del Comune. Non a caso ha già designato come assessore al Bilancio Paolo Andrei, un uomo che le banche le conosce da vicino per essere stato fino a pochi giorni fa vicepresidente della Fondazione Cariparma. Gli imprenditori hanno poca scelta, conoscono Bernazzoli e sanno che non farà scherzi, fermerà le volumetrie inutili, magari riscriverà i piani urbanistici e garantirà solo la fine dei lavori del termovalorizzatore, unica opera pubblica giudicata necessaria anche a sinistra.
L’Unione Industriali questa volta però è stata attenta a non dare indicazioni formali di voto e anche il suo giornale, La Gazzetta di Parma , si è mosso con cautela. Vedremo se nelle ore finali del ballottaggio richiamerà i suoi lettori a evitare salti nel buio (Grillo) ma c’è timore che esporre alla luce del sole il patto implicito che lega industriali e Pd (con l’appoggio esterno delle coop) possa essere persino controproducente. Perché finora abbiamo parlato di mattoni, debiti e banche ma in città le azioni dei grillini sono comunque in rialzo. Non vogliono il termovalorizzatore e auspicano una sorta di ritorno al mondo rurale «uscendo dalla logica perversa dell’agroindustria». Ma di fronte al vento della contestazione dei partiti e degli imprenditori che hanno realizzato il sacco di Parma il confronto di merito sui programmi rischia di contar poco.

Fonte: Corriere della Sera del 16 maggio 2012

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