TESTATA:
AFFARI & FINANZA
DATA:
17/05/2004
PAGINA:
7
SEZIONE:
AFFARI FINANZA
TITOLO:
“Valorizzare il manifatturiero è l’ unica ricetta per l’ Italia”
L’ INTERVISTA/ RICCARDO VARALDO/ Per il direttore della Sant’ Anna
di Pisa, il problema non è solo la mancanza di ricerca quanto la
capacità di andare sui mercati con determinazione
SOMMARIO:
La carenza nella ricerca e sviluppo spiega il ritardo del sistema,
la carenza nella distribuzione ne spiega il declino. Oltre la
ricerca da noi serve quindi consulenza tecnologica per accrescere
l’ identità dei prodotti Da noi c’ è un diffuso saper fare ma una
grande carenza nel saper vendere quel che si produce: fino a pochi
anni fa non ce ne rendevamo conto perché a trainare era la domanda
internazionale e poi c’ erano le svalutazioni
AUTORE:
MARCO PANARA
TESTO:
«Valorizzare le imprese che possono farcela, rottamare quelle
inefficienti». Come rottamare? «Chiudere, smettere di tenerle in
piedi per forza, perché sono un ostacolo alla crescita delle altre
e del sistema nel suo complesso». Quelle che non funzionano non
dovrebbero chiudere da sole? «In realtà non accade. Prendiamo i
distretti: nella fase di crescita una delle loro caratteristiche
positive è stata la facilità con la quale sono nate nuove imprese,
in questa fase di ripiegamento invece è come se ci fossero
barriere all’ uscita e così restano in piedi aziende che non hanno
futuro ma che appesantiscono il sistema e in qualche modo rendono
più difficile la crescita delle altre». Riccardo Varaldo,
economista industriale e direttore della Scuola Superiore Sant’
Anna di Pisa, ha una lettura precisa del declino italiano: la
qualità delle imprese. Che cos’ hanno le imprese italiane che non
va? «Molte sono buone o anche ottime, molte invece fanno fatica a
reggere i tempi, e per una buona parte di queste i problemi sono
la qualità patrimoniale dell’ azienda, le caratteristiche dell’
imprenditore e spesso anche dei suoi collaboratori». E’ questa la
ragione del declino di cui si parla? «C’ è una gran confusione
sulla situazione dell’ economia italiana e si tende a mettere
tutto nel gran calderone del declino quando invece i filoni di
analisi e di intervento sono almeno due: il declino da una parte e
il ritardo nell’ adeguarci all’ economia basata sulla conoscenza
dall’ altra». Dove sta la differenza? «Sono problemi diversi che
richiedono interventi diversi. La soluzione al problema del
declino per esempio non è la ricerca, perché la ricerca ha i suoi
tempi e intanto il declino, se vogliamo bloccarlo, va curato in un
altro modo». Cominciamo allora con il declino. Cosa si può fare?
«Partire da quello che si ha. Il patrimonio che possediamo è la
capacità di produrre ad alto livello beni anche tradizionali. Il
settore manifatturiero occupa in Italia ancora il 22,8 per cento
della popolazione attiva contro il 19 per cento di Eurolandia, il
che vuol dire che abbiamo mantenuto più di altri questo settore e
ora siamo in una fase delicata perché rischiamo di perdere
rapidamente quota». Questa forte presenza nel manifatturiero non
dipenderà dal fatto che abbiamo sviluppato poco i servizi?
«Dipende certamente dal nostro ritardo nel passaggio a una
economia basata sulla conoscenza, ma intanto il settore
manifatturiero ce l’ abbiamo e quello che non si può fare è
mandarlo a rotoli finché non riusciamo a recuperare quel ritardo».
Allora la sua tesi è che contro la decadenza bisogna tenere in
piedi il manifatturiero. «Bisogna valorizzare in maniera
intelligente il patrimonio che abbiamo. Nel sistema Italia c’ è un
diffuso saper fare ma una grande carenza nel saper valorizzare
quello che si produce. Fino a pochi anni fa non ce ne rendevamo
bene conto perché a trainare era la domanda internazionale, e le
nostre deficienze erano coperte dalle svalutazioni competitive.
Ora le svalutazioni competitive non ci sono più, e in aggiunta ci
sono i paesi emergenti che producono beni di buona qualità a
prezzi assai competitivi. Questo vuol dire che ora la domanda
internazionale devi andare a conquistartela, e molte delle nostre
imprese non sono preparate a farlo.». Qualcuna lo fa. «Certo la
Ferrari lo fa, la Azimut Benetti lo fa, molte lo fanno, ma sono
troppo poche. Le altre non lo fanno perché hanno un deficit di
qualità, non dei prodotti ma dell’ impresa stessa. Fare prodotti
buoni è la premessa, ma per venderli bisogna che abbiano una
identità e l’ identità è tutto quello che l’ azienda è capace di
metterci intorno, tanto più che imporre prodotti a basso contenuto
di conoscenza e difenderli sul mercato è particolarmente
difficile». Quindi con il declino la ricerca non c’ entra? «Per
bloccare il declino più che ricerca ci vuole consulenza
tecnologica: per un sistema che sa fare prodotti tradizionali, che
è quello che rischia il declino, il problema è semmai di
acquisizione di tecnologie ma è soprattutto di mercato. Se la
catena del valore è fatta dalla ricerca e sviluppo, dalla
produzione e dalla distribuzione e marketing, la carenza nella
ricerca e sviluppo spiega il ritardo del sistema Italia, la
carenza nella distribuzione e nel marketing ne spiega il declino.
Quindi per bloccare il declino e invertire la tendenza le prime
cose che le imprese italiane devono fare è diventare capaci di
avere una presenza attiva sui mercati internazionali e accrescere
l’ identità dei prodotti, il che è possibile solo se migliora la
qualità dell’ impresa». Passiamo ora al secondo problema, colmare
il ritardo nella transizione verso una economia della conoscenza.
«Il ritardo c’ è ed è in aumento. Nelle verifiche che
periodicamente vengono fatte sul comportamento dei paesi europei
in relazione all’ agenda fissata a Lisbona, che ha come obiettivo
appunto il passaggio ad una economia della conoscenza, l’ Italia
risulta essere il paese più in ritardo all’ interno di una Europa
che è tutta in ritardo». La consapevolezza di tutto ciò è diffusa,
quello che non è ancora chiaro invece è come si fa a mettere in
moto il processo. «La ricetta che danno tutti è aumentare gli
investimenti nella ricerca: l’ Italia destina l’ 1,07 per cento
del pil contro la media dell’ 1,98 dell’ Europa a 15 e il 2,8
degli Stati Uniti. Quindi un problema di quantità delle risorse c’
è. Ma non è l’ unico, perché c’ è anche un problema di efficienza
nell’ impiego delle risorse e un altro ancora di cattivo
funzionamento dei canali per il trasferimento della conoscenza dal
mondo della ricerca a quello delle imprese». Posto che senza soldi
non si va avanti, il problema dell’ efficienza come lo si risolve?
«Bisogna costruire nuove competenze nella gestione della finanza
per la ricerca e nella gestione manageriale dell’ innovazione. La
prima serve a rendere più razionale la allocazione delle risorse e
la seconda a dare prospettive di sviluppo, perché se non si riesce
a far fruttare gli investimenti nella ricerca, sono soldi
sciupati». E i canali tra ricerca e impresa, perché in Italia non
funzionano? «Perché più del 50 per cento della ricerca è
finanziata con risorse pubbliche e quando manca il raccordo con
una forte ricerca privata, la macchina pubblica finisce per
rimanere isolata e fa più fatica a trasferire le sue conoscenze a
valle. Il passaggio dalla conoscenza all’ innovazione lo deve fare
l’ impresa e se l’ impresa non è attrezzata, non ha al suo interno
soggetti capaci di fare questo passaggio, se non stimola con i
suoi ricercatori l’ università, da una parte l’ università rimane
quella che è e dall’ altra le conoscenze che pure produce non
passano». Qual è l’ esperienza della Scuola Sant’ Anna? «Abbiamo
creato il Polo Sant’ Anna Valdera a Pontedera, con 150 tecnologi
che in collaborazione con centri di eccellenza in tutto il mondo
lavorano al massimo livello in settori come la robotica, la
micromeccatronica, le nanotecnologie, la information technology,
le tecnologie ambientali e le tecnologie dell’ immagine». Ma il
rapporto con le imprese com’ è? «Con le grandi imprese è semplice.
La grande impresa arriva e ti affida una ricerca partecipando al
progetto e finanziando dottorati. La ricerca avviene nei
laboratori dell’ università ma c’ è un collegamento stretto con l’
impresa. Se invece si pensa alle piccole imprese il meccanismo
deve essere diverso. Le piccole imprese manifatturiere più che di
ricerca hanno bisogno di trasferimento di conoscenze tecnologiche,
non hanno bisogno di invenzioni ma hanno problemi da risolvere.
Per aiutarle a risolverli e favorire questo trasferimento di
conoscenze la Scuola Sant’ Anna insieme alla Piaggio, alle
associazioni di categoria e agli enti locali ha costruito un
apposito braccio operativo che si chiama Pontech». Tutto questo
riguarda le imprese già esistenti. «E’ vero, il ritardo
industriale verso l’ economia della conoscenza si può recuperare
soprattutto attraverso nuove imprese, figlie dirette della
conoscenza. L’ Mit ne ha prodotte quattromila, Silicon Valley è
figlia della Stanford University. In Italia gli spinoff
prodotti da Sant’ Anna sono 17, tutti quelli nati dalla ricerca
pubblica sono 220, mentre dovrebbero essere migliaia». Chi li
finanzia? «Tra i problemi c’ è quello di aiutarne
finanziariamente l’ avvio e la Sant’ Anna sta creando insieme a un
gruppo di banche dei fondi appositi, perchè il venture capital
interviene più tardi, quando l’ impresa già si è in qualche modo
consolidata. Quello che però vedo è che anche queste imprese
figlie della conoscenza faticano a crescere: negli Stati Uniti
dopo tre anni o sono in Borsa o chiudono, da noi vivono ma non
decollano. Rischiamo anche qui di ritrovarci con una piccola selva
di nani».
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Parla Varaldo, Direttore del S.Anna di Pisa: “Valorizzare il manifatturiero è l’ unica ricetta per l’ Italia”
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