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Ora ill “primo nordismo” fa i conti con le crepe e i cedimenti del voto

Potremmo chiamarlo il «primo nordismo» ed è stata la formula politica che ha permesso all’ antenato del Pdl, Forza Italia, e alla Lega di condurre le danze per anni nelle regioni settentrionali. La formula si è giovata della capacità di Silvio Berlusconi di assicurare un consenso di tipo generalista e della specializzazione di Umberto Bossi verso la raccolta di un consenso di tipo comunitario fortemente legato all’ identità territoriale. Con i risultati elettorali delle amministrative di ieri il «primo nordismo» comincia a mostrare delle crepe, non è più una formula passepartout. A cedere vistosamente è innanzitutto il lato berlusconiano. Il Pdl in Veneto è stato superato e soppiantato dall’ alleato leghista, a Torino non ha superato l’ esame di maturità legato al lancio di un giovane candidato uscendone travolto, in Emilia ha dovuto cedere sempre alla Lega il ruolo preminente nella coalizione, a Trieste lo scontro tra clan rivali ha messo in fuga gli elettori moderati. Se in passato il «primo nordismo» aveva saputo tenere assieme la borghesia industriale del Nord, gli artigiani e i commercianti, il popolo delle partite Iva e una quota consistente di operai, non sembra che l’ operazione si sia ripetuta nello scorso weekend. È vero che nel frattempo sono cambiate nel Nord le sembianze stesse della borghesia ma l’ accentuazione dei toni populisti da parte del Pdl non sembra pagare in termini di consenso, come non sembra vincente il ricorrente braccio di ferro tra il premier e il ministro dell’ Economia Giulio Tremonti sulle presunte misure anticrisi. Il risultato è che se il Pdl dovesse perdere al ballottaggio per il Comune di Milano gli resterebbe come unico amministratore di peso nel Nord Roberto Formigoni, la cui identità politica però è ciellina e non berlusconiana. Più difficile è una valutazione del voto leghista che ha bisogno dei risultati dei centri minori per essere pienamente valida. Si può dire che a differenza delle tante previsioni circolate in questi mesi, e almeno in sede amministrativa, il Carroccio non sfonda, pare quasi plafonato. Il proporsi ai cittadini come partito di lotta e partito di governo, a giudizio del sociologo Paolo Feltrin, è un equivoco che non può protrarsi all’ infinito, «un po’ come avvenne a suo tempo all’ inventore della fortunata formula, il segretario del Pci Enrico Berlinguer». Si può essere tentati dal dire che la Lega mantiene il voto dei Piccoli, artigiani e lavoratori autonomi che siano, ma non allarga più tanto la sua rappresentanza sociale nonostante per la prima volta possa contare su due governatori nelle regioni del Nord piuttosto propensi a esporsi mediaticamente. Una certa tendenza alla conservazione dell’ esistente, alla musealità, unita a una forte resistenza persino lessicale verso i temi dell’ innovazione e del terziario fa sì che una parte del voto in libera uscita dal Pdl non si rivolga al Carroccio. E magari preferisca l’ astensione. Per carità si tratta di un episodio minore ma le continue liti tra gli esponenti berlusconiani e quelli leghisti sulla regolamentazione delle produzioni tessili «made in» mostra come il solco si sia allargato e di conseguenza non sia più così automatico fondere i due elettorati in un’ unica proposta politica. Così come una ricorrente propensione a polemizzare con la Confindustria può aver allontanato dal Pdl una quota di voto borghese senza per altro riversarlo sugli uomini del Carroccio. Con i risultati delle amministrative si riaffaccia sulla scena politica del Nord anche il Pd e lo fa con la figura politica di Piero Fassino, che si avvia a sommare il ruolo di Sergio Chiamparino con quello di Massimo Cacciari. Gli elettori torinesi nell’ epoca di Sergio Marchionne e della globalizzazione dell’ industria dell’ auto sembrano aver deciso che il miglior «sindacalista di territorio» lo avesse in lista il Pd e lo hanno scelto con ampio margine. Il buon risultato di Fassino è l’ unico di un candidato del centrosinistra dichiaratamente nordista, non lo sono infatti né Merola (Bologna) né Cosolini (Trieste) né Pisapia. Per quanto riguarda quest’ ultimo ci sarà tempo per capire se a gonfiare le sue vele sia stata anche un’ accelerazione del cambiamento di composizione sociale di Milano, capitale della modernità italiana con tutte le contraddizioni che ciò comporta. Ammesso, dunque, e non concesso che il «primo nordismo» mostri qualche limite, non è affatto detto che la questione settentrionale perda la sua centralità nella vita politica italiana. Anzi è facile che il Pd, per effetto del risultato elettorale, spinga proprio in questa direzione e allora la riforma fiscale, oggi sottoposta a lunga gestazione, è destinata a diventare il banco di prova per qualsiasi esperimento di un ipotetico «secondo nordismo».

Fonte: Corriere della Sera del 17 maggio 2011

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