Quando ci chiediamo se con l’ultima manovra l’Italia abbia fatto abbastanza per non rischiare in futuro il default, dovremmo guardare indietro di pochi mesi. Nel 2010 l’Italia aveva raggiunto agevolmente l’obiettivo di bilancio con un deficit pari al 4,5%, inferiore al previsto e tra i più bassi nella zona euro. A proposito dei primi mesi del 2011 il Fondo monetario internazionale scriveva di «positivi sviluppi» nei conti di bilancio. Nonostante la disciplina dei conti, tra maggio e giugno gli investitori hanno cominciato a perdere fiducia nel debito italiano e l’8 luglio hanno apertamente messo in dubbio la sostenibilità del debito. I conti dello Stato non erano mutati, ma erano cambiate le premesse politiche alla disciplina di bilancio.
Il governo era uscito sconfitto dalle elezioni, la linea del rigore del ministro delle Finanze era stata criticata dal capo del governo e da entrambi i partiti della coalizione. Tremonti era in difficoltà per le inchieste su un suo stretto collaboratore. Nonostante il rigore nominale, la correzione di bilancio era ambigua per la scadenza temporale dei sacrifici quasi tutti rinviati alla prossima legislatura. Inoltre il debito pubblico era tornato al 120% del pil in ragione della bassa crescita dell’economia alla quale il governo non sembrava dare risposte. In Europa gli investitori erano preoccupati per la prospettiva di un contagio da default a seguito del negoziato sul coinvolgimento dei privati nel taglio del debito greco.
Quali di queste circostanze è stata risolta? Per ora nessuna.
Le condizioni della crescita economica italiana sono peggiorate per l’effetto sul reddito disponibile delle nuove tasse. La credibilità della manovra resta condizionata dal rinvio dell’aggiustamento al 2013-14. Il quadro politico legato alle vicende giudiziarie aperte è destinato a pesare sugli equilibri interni del governo. Ogni evoluzione politica è comunque bloccata dalla figura stessa di Silvio Berlusconi. Infine le trattative europee sulla Grecia sono state aggiornate a settembre lasciando un vuoto molto preoccupante da qui ad allora. Bisognerà vedere se il vertice straordinario convocato per giovedì sarà in grado di prendere decisioni che comunque i Parlamenti potrebbero votare solo più tardi.
Ma non è forse incoraggiante che dopo la reazione del governo e del Parlamento i mercati abbiano risposto positivamente?
In realtà il differenziale d’interessi con la Germania è molto lontano dal tornare a una normalità sostenibile. E non dovremmo sorprenderci di ciò. Una volta che un investimento entra in una classe di rischio peggiore, i grandi investitori modificano l’asset allocation e fanno scattare quasi automaticamente reazioni difensive riducendo il peso nel portafoglio dell’attività diventata improvvisamente rischiosa. Non è un caso che da settimane gli scambi sui titoli italiani siano rarefatti. Un mercato “sottile” è destinato a rimanere esposto a oscillazioni pericolose. In tali circostanze può non essere sufficiente ridurre l’offerta futura di titoli di Stato – cioè il livello futuro del debito – per assicurarne la domanda nelle prossime settimane e ridurre il costo del finanziamento del debito. Un tasso d’interesse sui Btp vicino al 6%, per intenderci, implica un avanzo primario anch’esso non lontano dal 6% per poter ridurre gradatamente il debito pubblico. Si tratta dello stesso aggiustamento fiscale richiesto alla Grecia.
La risposta politica può non essere sufficiente a disperdere i dubbi degli investitori perché non é credibile che l’opposizione faccia da sponda per il resto della legislatura a un governo che polarizza molto la politica del paese. La manovra stessa è segnata dai caratteri di estemporaneità della sua prima versione, con revisioni sostanziali che lasciano in dubbio l’efficacia dal punto di vista dello sviluppo. Un esempio delle strozzature strutturali del paese che non vengono affrontate dalla manovra è la disoccupazione giovanile, che è ormai a livello egiziano, coniugato al calo di investimenti nell’istruzione. Le due condizioni rischiano di provocare una perdita permanente di crescita potenziale. Nel valutare la qualità di credito di un paese, le agenzie di rating stanno spostando la loro attenzione dal livello del debito proprio alla capacità di crescita. Infatti si sente parlare di future minacciose revisioni del rating che colpirebbero i paesi più lenti dell’euro-area.
Tuttavia l’Italia sarebbe abbastanza in grado di fronteggiare questa nuova emergenza se non dovesse farsi carico anche di una situazione degradata dalla crisi dei paesi dell’intera euro-area. Se da Irlanda e Portogallo stavano venendo buoni segnali, le notizie dalla Grecia sono invece deludenti. Il governo di Atene vorrebbe addirittura riaprire il negoziato sui termini degli aiuti dimostrando o poca determinazione o lo scarso realismo della terapia che è tenuta a seguire.
Intanto Berlino insiste nel coinvolgere a ogni costo i creditori privati nella revisione del valore del debito greco. Ma in questo modo l’incertezza degli investitori si approfondisce. Con l’andare del tempo anche paesi solidi come la Francia stanno cominciando ad apparire vulnerabili. Nell’arco di un paio d’anni Parigi potrebbe superare un rapporto debito-pil del 100%. A quel punto il numero dei paesi dell’euro in grado di finanziare gli istituti comuni si ridurrebbe di colpo e una decisione sul sostegno finanziario alla Grecia, se non presa subito, diventerebbe ancora più difficile.
Mi rendo conto di non aver indossato occhiali rosa, ma il fatto che l’Italia sia troppo grande per essere salvata, significa una cosa sola: dovremo salvarci da soli e dovremo farlo prima possibile.
Obbligati a contare su noi stessi
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