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Obama paga oggi la cautela dell’esordio

Con stupore, alla vigilia del voto di medio termine, Washington si chiede come sia stato possibile che Barack Obama, il presidente che aveva risollevato speranza e orgoglio nel popolo americano, abbia visto il destino voltargli le spalle nel giro di solo due anni.
La saggezza convenzionale risponde che la Casa Bianca ha perso il contatto con il popolo, che l’agenda del partito democratico è stata poco moderata e non rispettosa del cittadino medio e che lo stesso presidente si è perso nei suoi eleganti esercizi di retorica pubblica anziché mettere le mani sulle viti e sui bulloni delle emergenze. La saggezza convenzionale tuttavia ha un problema: spesso tanto più è convenzionale, tanto meno è saggia.
Quando è arrivato alla Casa Bianca, Barack Obama ha trovato una situazione dell’economia disastrosa, ma era stato eletto come l’uomo della speranza e quindi anziché mettere in tutta la loro evidenza, di fronte agli occhi degli americani, i problemi del paese, ha preferito spendere il suo messaggio di ottimismo.
Non è stato troppo radicale nel 2009 bensì il contrario, troppo moderato nel denunciare i problemi dell’economia e della società americana. La lezione della crisi economica che tuttora tanto gravemente pesa sull’occupazione e condiziona il senso di fiducia dei cittadini è stata rapidamente accantonata. L’analisi delle colpe è stata messa di lato dopo la vittoria elettorale, perché non intralciasse la naturale ripresa degli spiriti animali, come se la crisi scoppiata non fosse che una delle tradizionali cadute cicliche del capitalismo americano.
L’ottimismo e l’equilibrio del nuovo presidente hanno impedito che negli americani crescesse la consapevolezza che il modello con cui avevano prosperato era fallito: che la crescita fondata sul debito delle famiglie e delle imprese non fosse perennemente sostenibile, che i bassi tassi d’interesse e il credito abbondante fornito dalla Federal Reserve non fossero un inevitabile acceleratore degli investimenti e dell’occupazione, che il deprezzamento del dollaro deciso unilateralmente non fosse sufficiente a restituire competitività a produzioni che perdevano mercato ormai da decenni, che gli squilibri economici con la Cina non fossero affrontabili con una logica confrontativa da superpotenza.
Non ammettere le debolezze strutturali dell’economia americana ha significato nascondere il fatto che il rallentamento dell’economia sarebbe stato inevitabile. Che le famiglie e le imprese avrebbero dovuto ricostruire un po’ di equilibrio nei propri bilanci spendendo di meno. Che l’occupazione non avrebbe potuto riprendere in settori produttivi ormai spiazzati dal mercato.
Tutto ciò è emerso con evidenza nel corso del 2010 creando quel senso di delusione e perfino di tradimento che è tanto comune cogliere nelle opinioni dei cittadini americani.
Non solo. Il moderatismo del presidente e dei suoi consiglieri economici nella diagnosi della crisi ha fatto sì che tutti gli errori del passato siano stati ripetuti: la Federal Reserve continua a stimolare l’economia con credito abbondante, senza ammettere che i canali di trasmissione della politica monetaria sono inceppati, il credito non arriva a famiglie e imprese perché il problema non è l’offerta di credito, ma la debole domanda di chi deve ridurre, non aumentare, i propri debiti.
Il dollaro cala, ma il disavanzo commerciale aumenta (e non solo per il cosiddetto effetto “J”: l’aumento del valore relativo delle importazioni). L’occupazione diminuisce perché la sua natura è strutturale, con lavoratori che hanno capacità inadatte e producono cose sbagliate. La fiducia nella politica economica crolla.
Ma c’è un ulteriore e forse ancor più grave problema provocato dalla scarsa radicalità con cui gli Stati Uniti hanno affrontato le cause strutturali della crisi che hanno poi trasferito all’economia globale. Mancando l’operazione verità sui problemi di competitività di una parte non piccola dell’industria americana, sul ruolo perverso di Wall Street, o sull’indebitamento come rimedio alle diseguaglianze di reddito, si è lasciato interamente il campo scoperto ad ogni altra analisi della crisi.
In assenza di un’amara ma veritiera scansione, ogni altra ricetta era altrettanto plausibile: nulla era più “vero” o “falso”. Il discorso pubblico si è spostato quindi sul piano del linguaggio populista: secondo i predicatori del Tea party la spesa pubblica equivale al tradimento della Costituzione e dello spirito dei padri fondatori; la mancata ripresa è la dimostrazione che il governo e il presidente sono “il nemico interno” del popolo americano.
Ora è troppo tardi perché Obama dica credibilmente agli americani quello che non ha detto due anni fa: «Dobbiamo rassegnarci a crescere meno, dobbiamo imparare di nuovo le virtù di una società equilibrata». Ora è troppo tardi anche per ogni rilancio, vittima sia di un pregiudizio politico sullo spreco di denaro pubblico, sia di un giudizio economico sulla scarsa efficacia dello stimolo fiscale.
Infatti l’ultima carta è ancora una volta lo stimolo monetario impartito dalla Fed, con l’obiettivo di creare posti di lavoro attraverso l’aumento del valore delle attività finanziarie, della ricchezza degli americani e quindi dei loro consumi. Nient’altro di diverso da quello che avrebbe fatto Greenspan, con le conseguenze che continuiamo a vivere anche sulla nostra pelle.

Fonte: Sole 24 Ore del 2 novembre 2010

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