Cancellato l’atomo, l’Enel riscrive le sue strategie. Per non lasciarci al buio e garantirsi gli utili le resta una sola strada. Poco costosa, molto remunerativa.
Il nucleare è stato cassato, cancellato dal governo per evitare un referendum che avrebbe sicuramente perso, ma non sarà altrettanto facile cancellare gli effetti del cambio di rotta. Il primo test ci toccherà quest’estate, quando ci contenderemo con i tedeschi, a colpi di rialzi, l’elettricità per far andare i nostri condizionatori. La chiusura per tre mesi di ben sette reattori decisa da Angela Merkel dopo il disastro di Fukushima, spingerà il paese peso massimo d’Europa a comprare energia sul mercato, e poiché anche la nostra dipendenza dall’import è altissima, lo scenario non è allegro: kilowattora scarsi e a prezzi sempre più salati, incubo di black out, consumatori in rivolta, governo imbufalito. Questa sequenza deve essere passata come un film dell’orrore di fronte agli occhi dell’amministratore delegato dell’Enel Fulvio Conti, che ha appena incassato la riconferma dal ministro dell’Economia insieme a un segnale di controllo più stretto con la nomina a presidente di Paolo Andrea Colombo, che nel cda dell’Eni dava il tormento a Paolo Scaroni proprio per la sua puntigliosa attenzione ai numeri. Proprio per evitare quel film, Conti sta lavorando a ridisegnare la strategia del gigante elettrico per un futuro no nuke, almeno a casa nostra. E in questo futuro c’è un solo, grande protagonista: il carbone. Costa poco, e fa guadagnare molto.
L’idea naturalmente non è venuta solo a Conti, visto che da un po’ di tempo il carbone, finora disprezzato perché sporca e produce CO2 nonché altri terribili fumi, sta vivendo un grande momento. La domanda mondiale cresce (alimentata, manco a dirlo, da Cina e India, ma anche Germania e Giappone) ed è previsto che crescerà del 53 per cento di qui al 2030; la produzione mondiale nel 2010 è stata di 6,5 miliardi di tonnellate (più 8 per cento) e il suo prezzo si sta muovendo al rialzo (vedi il grafico a pagina 144). Resta e resterà insomma incontrastato al primo posto tra le materie prime energetiche: il 39 per cento dell’energia mondiale è prodotto bruciando carbone, alla faccia del gas e dell’uranio.
Ma come sostenere la sua crescita in alternativa proprio al nucleare, visto che l’argomento che trainava l’atomo era produrre energia “pulita”? Come riuscire a far passare nell’opinione pubblica – senza un salto logico – un’opzione tanto contrastante come l’aumento della fonte meno amica dell’ambiente? Il problema di Conti e della possente macchina del consenso dell’Enel sta tutta qui, e si suppone che si muoverà di conseguenza.
Intanto si fanno i calcoli. Le convenienze sono chiare. L’addio al nucleare in Italia non ha terremotato il budget Enel. L’impegno nella società al 50 per cento con Edf che avrebbe dovuto costruire le centrali nella penisola assorbiva circa 100 milioni l’anno, perché il grosso dell’impegno, cioè 300-400 milioni l’anno, era stato pensato a dopo il 2015, finito l’iter delle autorizzazioni. Ora quelle risorse tornano in libera uscita, e si potranno utilizzare per le nuove acquisizioni che l’amministratore delegato ha promesso agli analisti presentando il bilancio 2010. Ma sarà necessario anche tenere un adeguato ritmo di profitti, sia per continuare a pagare il dividendo (che sarebbe pericoloso far scendere sotto il 7 per cento, dopo aver abituato investitori e Tesoro a un ritorno così alto), sia per non far crescere di nuovo il debito, che è stato necessario ridurre vendendo gioielli di famiglia come Enel Green Power. Ma il nucleare aveva una missione: stabilizzare la produzione su di una fonte poco costosa (gli oneri di sistema, come le scorie, sarebbero state appunto a carico del sistema) e continuativa. E rendere l’azienda più competitiva.
Per ottenere lo stesso risultato, l’unico piano B sul tavolo è far crescere l’esecrato carbone. “Le centrali che danno a Enel i maggiori profitti sono quelle alimentate in questo modo”, afferma Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. Si tratta di quella di Brindisi, e della centrale di Civitavecchia. Ma pronta a decollare ce n’è una terza, che è anche la più importante: tre gruppi da 660 megawatt di potenza sul delta del Po, già autorizzati dal ministero dell’Ambiente e a gennaio anche dallo Sviluppo economico. E’ l’operazione Porto Tolle, la grande riconversione della vecchia centrale a olio combustibile, che diventerà quella di punta per le forniture dell’intera Padania.
Un’operazione imponente, con un investimento di 2 miliardi di euro, 2 mila persone impiegate nel cantiere e sei anni al completamento. Per alimentarla, il carico arriverà via nave, e poi verrà trasportato fino alla centrale su chiatte che si addentreranno nel delta. Nonostante il percorso un po’ complesso, il rischio inquinamento ambientale, in questa fase, è limitato. Ma c’è un ma: che succede dell’inquinamento nell’atmosfera, quello che risulterà dalla combustione del carbone? Che ne sarà, insomma, degli obiettivi di abbattimento della CO2 che l’Italia, come tutti i paesi europei, si è impegnata a realizzare entro il 2020?
Porto Tolle, come Civitavecchia, adotta una tecnologia che si chiama carbone pulito. Le porcherie liberate nell’aria sono meno, ma una certa quota c’è. E nel calcolo della convenienza delle diverse fonti energetiche, occorre includere il costo dei diritti per emettere CO2, che oggi sono in gran parte gratuiti ma che dal 2013 saranno tutti a pagamento e diventeranno un onere importante per l’azienda elettrica. Oggi, insomma, il costo di produzione dell’energia da carbone, incluso il diritto a emettere CO2, è competitivo rispetto a tutti gli altri. Un domani non troppo lontano i parametri usati oggi per valutare il carbone potrebbero saltare. I primi segnali ci sono già. E’ stato calcolato, infatti, che se la Germania dovesse chiudere definitivamente i suoi impianti nucleari, e sostituirli con carbone e gas, dovrebbe comprare 8 milioni di diritti CO2 in più sul mercato (ogni diritto corrisponde a una tonnellata di gas che altera il clima). Il costo? 138 milioni di euro in più per i produttori elettrici. Un simile shopping sul mercato dei diritti farebbe poi ulteriormente arroventare i loro prezzi. I futures a dicembre dei diritti sono già balzati da 15 euro a a 17 a tonnellata dopo il Giappone, e si sono impennati a 20 dopo lo stop della Merkel.
Insomma, in ballo c’è il delicato equilibrio tra i virtuosi obiettivi nazionali per combattere il riscaldamento globale decisi dai governi, e gli interessi aziendali dei produttori di energia, i loro bilanci, i loro utili. Il ripensamento nucleare globale rischia di mandare tutto il tilt.
E’ un effetto paradosso che riguarda anche noi. Rinunciare a costruire il nucleare in Italia per l’Enel non è un grosso sacrificio (diverso discorso per le centrali che ha in Spagna e Slovacchia, che contribuiscono con un miliardo al suo margine operativo e sarebbe duro chiudere); aumentare senza troppe proteste l’uso del carbone è una grossa opportunità. Purché non si vada tanto per il sottile con la lotta al cambiamento climatico, purché sia chiaro che l’abbattimento della CO2, di questi tempi, non è più una priorità. L’addio al nucleare potrebbe avere questa coda velenosa.
Nucleare addio, si torna al carbone
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