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  • martedì , 14 Gennaio 2025

Non toccate la legge sull’Opa

Evitiamo di commettere un altro errore. È meglio che la legge italiana sull’Opa resti così com’è. È fin ovvio che tutte le norme sono perfettibili e che a otto anni di distanza anche la Draghi, come ha pacatamente osservato il presidente della Consob Lamberto Cardia, può aver bisogno di qualche piccolo intervento di manutenzione, ma mettervi mano oggi darebbe un segnale negativo. Di fronte all’ondata di umori neo-protezionistici che scuotono gli orientamenti delle élite dell’Europa mediterranea (e mentre le autorità di Bruxelles tutt’al più farfugliano), rendere la legge Draghi più omogenea al testo europeo— e quindi meno favorevole alla circolazione dei diritti di proprietà— equivarrebbe a suonare la ritirata.
Interrompendo così un itinerario di riavvicinamento tra legislazione e cultura di mercato faticosamente iniziato lungo la prima parte degli anni Novanta. La scelta di lasciare intatta la legge sull’Opa è tutt’altro che un invito alla resa, una sorta di tappeto steso davanti a Franza e Spagna per negoziare tutt’al più la clemenza dei vincitori. Si potrebbe infatti prendere in esame la possibilità di introdurre negli statuti delle società italiane «a rischio» delle misure difensive ad hoc, delle poison pill a orologeria, destinate a entrare in funzione solo ed esclusivamente se il gruppo straniero aggressore godesse di una legislazione privilegiata e asimmetrica rispetto alla nostra.
Un escamotage di carattere tecnico che stabilirebbe una condizione di assoluta reciprocità e non interromperebbe il cammino del Belpaese verso la piena apertura di mercato e l’integrazione con le economie sorelle. Perché ciò che suona incomprensibile del disordinato dibattito apertosi in Italia dopo lo schiaffo di Parigi ai danni dell’Enel è che si inviti il nostro Paese a copiare pedissequamente il modello francese, a percorrere una strada che il presidente della Confindustria transalpina, Laurence Parisot, un prestigioso esponente liberalsocialista come Dominique Strauss-Kahn insieme al più autorevole quotidiano, Le Monde, hanno ampiamente criticato.Non è vero che Oltralpe viga il pensiero unico protezionista, anche in riva alla Senna i dubbi cominciano ad avere piena cittadinanza. La progettata fusione tra Gaz de France e Suez comincia ad apparire non già l’espressione della geometrica potenza del capitalismo renano, bensì il colpo di coda di quel modello ormai 25 anni fa mirabilmente descritto da Michel Albert.
La grandeur elettrica è solo il tentativo di riportare indietro l’orologio della globalizzazione. Dopo l’eccezione culturale, quella economica. Seguire l’esempio francese per l’Italia sarebbe una mossa autolesionista. Da noi c’è la necessità primaria di rimettere in moto lo sviluppo perché solo abbandonando i lidi della crescita zero potremo riuscire a far coesistere innovazione e coesione sociale. Con idee come l’accorpamento di Eni-Enel ripiomberemmo invece dritti dritti dentro gli anni ’80, dopo aver smontato le Partecipazioni Statali le ricostruiremmo più imponenti e ancor più capaci di condizionare pesantemente le scelte delle authority di controllo. Era stato proprio Romano Prodi qualche mese fa a sottolineare il rischio di avere sceriffi deboli in balia dei nuovi monopoli.
Ma l’Enel invece di inseguire dannose suggestioni dovrebbe a questo punto fare l’unica mossa giusta: presentare formalmente l’Opa su Suez. Il re protezionista sarebbe nudo. La società guidata da Fulvio Conti recupererebbe prestigio e immagine aziendale inevitabilmente compromessi da comportamenti pur generosimache la comunità internazionale ha giudicato maldestri. Il governo di Parigi e i deboli commissari di Bruxelles (a proposito, qualcuno ha notizia della presidenza austriaca?) non avrebbero più alibi.

Fonte: Il Corriere della Sera del 3 marzo 2006

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