• lunedì , 23 Dicembre 2024

Non si concerta la libertà di licenziare

FRA Confindustria, governo e Cgil sono sorti diversi
contrasti. Qualche giorno fa il presidente degli industriali ha
minacciato di cercare accordi senza la Cgil, la più importante
associazione sindacale. Il governo ha dichiarato: niente
accordi senza la Cgil. Bruno Trentin, il predecessore di
Cofferati, per riunire il sindacato propone una grande
consultazione su flessibilità e formazione.
Nei contrasti, uno dei temi più caldi è la flessibilità, che ha
diverse facce, due in particolare: la libertà di licenziare e la
flessibilità, verso il basso, dei salari. Nella speranza che
possano servire a un confronto pacato, intendo esprimere
alcuni commenti sul primo tema, limitandomi a una breve
osservazione sul secondo.
Molti anni fa, il 22 giugno 1985, Repubblica pubblicò un mio
articolo dal titolo “Libertà di licenziare per salvare
l’occupazione”. Il tema era scottante, anche più di oggi, ed
Eugenio Scalfari, allora direttore, mi aveva telefonato per
chiedermi se ero consapevole che correvo dei rischi: le
Brigate Rosse erano virulente. Eppure io non sostenevo la
piena libertà di licenziare: sostenevo che in qualche modo
dovessero essere estesi i giustificati motivi. Suggerivo, a titolo
di esempio, di studiare la possibilità di utilizzare i contratti a
termine di formazione, che in seguito sono stati introdotti.
Sono stati poi adottati altri contratti “atipici” – contratti a
tempo determinato e per lavoro a tempo parziale – che hanno
rappresentato progressi significativi verso una maggiore
flessibilità del mercato del lavoro. Dal momento che non solo
i dirigenti della Confindustria, ma anche molti economisti
ragionano come se fosse auspicabile una flessibilità piena e
incondizionata, e non solo per i licenziamenti, debbo chiarire
bene perché dissento da questo punto di vista. Nell’interesse
generale dobbiamo perseguire non la flessibilità massima ma
una flessibilità ottimale, che non coincide affatto con la
massima; è la tesi che sostenevo in quell’articolo e che poi ho
sviluppato in altre pubblicazioni, fra cui due libri.
Se è arduo licenziare, quando aumenta la domanda i manager
cercheranno ogni volta che possono di ricorrere a macchine
piuttosto che a lavoratori; ciò contribuirà alla crescita della
produttività, ma non dell’occupazione. Viceversa, se è facile
licenziare si avranno le conseguenze opposte: bassa crescita
della produttività, alta crescita dell’occupazione e, al tempo
stesso, considerata la debolezza contrattuale dei sindacati in
tali condizioni, bassa crescita dei salari nominali, con
probabile riduzione dei salari reali quando c’è inflazione. Se
l’occupazione ristagna, ciò non è nell’interesse generale; ma
non è nemmeno nell’interesse generale se la produttività
cresce poco, ciò che accade sia perché, con la facilità di
licenziare, l’incentivo a introdurre macchine che risparmiano
lavoro è basso sia perché i lavoratori non si sentono legati
all’impresa e non si sforzano di perfezionare le loro capacità
particolari. Se la produttività cresce poco ne soffre la
competitività internazionale del paese; d’altra parte, quando i
salari reali diminuiscono nella società si diffonde malessere e,
a parità di altre condizioni, viene frenata l’espansione
produttiva.
Queste non sono argomentazioni astratte; per quanto è
possibile in economia, abbiamo una sorta di verifica empirica:
da un lato i paesi europei, in primo luogo l’Italia, dall’altro gli
Stati Uniti. Negli ultimi venti anni in Italia oltre l’80 per cento
dell’aumento di reddito è imputabile all’aumento di produttività
e meno del 20 per cento all’aumento dell’occupazione, mentre
negli Stati Uniti è accaduto l’opposto – in diversi anni la
produttività è rimasta addirittura stagnante, ciò che suscitò
allarme nel paese. Negli stessi anni le retribuzioni reali sono
cresciute molto poco negli Stati Uniti e in diversi anni sono
diminuite, mentre in Italia le retribuzioni sono cresciute in
misura paragonabile alla produttività. Come si sa, il deficit
commerciale americano ha raggiunto proporzioni mostruose;
a mio giudizio una delle cause è proprio il debole aumento
della produttività, che solo negli ultimi anni, grazie alla
diffusione di tecnologie informatiche, ha avuto una certa
ripresa. Gli Stati Uniti si sono potuti permettere quel deficit
poiché il dollaro è moneta di riserva e c’è stato un forte
afflusso di capitali esteri. Si teme una resa di conti, che
sarebbe dannosa per tutti.
Si può obiettare: la flessibilità nei mercati del lavoro dei paesi
europei trent’anni fa era anche minore di oggi: perché allora
prevaleva una situazione non lontana alla piena occupazione?
La risposta non è difficile: allora i paesi avanzati crescevano
a saggi superiori al 4 per cento e l’Italia ad un saggio perfino
più alto e gli investimenti rappresentavano una quota elevata
del Pil. In seguito quei saggi e quella quota si sono dimezzati;
l’alta disoccupazione dell’Italia del Sud dipende in buona
misura dalla caduta degli investimenti in opere pubbliche
accompagnata da un aumento insufficiente degli investimenti
delle imprese. Con una crescita lenta il problema della
flessibilità assume importanza molto maggiore che nel
passato. Il confronto mette in luce che l’impulso all’aumento
dell’occupazione proviene dagli investimenti; la flessibilità non
è un impulso, ma una condizione permissiva: quanto più è
bassa tanto più alta dev’essere la quota degli investimenti per
ottenere un dato aumento dell’occupazione. La correlazione
inversa fra quota degli investimenti e disoccupazione appare
evidente anche negli Stati Uniti.
Se è vero che c’è un optimum di flessibilità, come possiamo
individuarlo? La risposta è complessa, se non altro perché ci
sono tanti tipi di flessibilità. Quanto alla libertà di licenziare,
anche ammesso che i contratti atipici abbiano consentito
notevoli progressi, penso che non siamo ancora all’optimum;
tenendo conto che la quota dei nostri lavoratori a tempo
parziale è nettamente più bassa della media europea – la
quota più alta è quella olandese – penso che occorra fare di
più in tale direzione, introducendo regole adeguate. Ma in
questo, come in tanti altri casi, sono necessarie indagini
sistematiche da parte non solo della Confindustria e della
Cgil, ma anche del ministero del Lavoro e della Banca
d’Italia. Abbiamo bisogno, non di duri scontri sociali, ma di
studi approfonditi riguardanti le nostre esperienze e quelle di
altri paesi.
In tali studi va sempre tenuto presente il quadro
internazionale. Dobbiamo renderci ben conto che
l’occupazione in certe importanti industrie tradizionali, come
quella tessile e quella delle calzature, è destinata al declino
progressivo a causa della concorrenza dei paesi del Terzo
mondo, dove i salari sono inferiori a un decimo dei nostri.
Ovvio che nessuna flessibilità salariale può rimuovere questa
prospettiva: possiamo salvarci solo puntando sulla ricerca e
sui nuovi prodotti. Qui siamo gravemente carenti, per colpa
dello Stato ma anche di più per colpa degli industriali, che
preferiscono investire in calciatori.
Bisogna riconoscere che hanno dato prova di maggior senso
di responsabilità i sindacati che firmarono nel 1993 con
Ciampi un protocollo in cui, con l’adesione al metodo della
concertazione, si riconosceva il ruolo essenziale della ricerca
per lo sviluppo economico e civile. Gli industriali insistono
sulla flessibilità incondizionata; dovrebbero preoccuparsi
molto di più della ricerca e dello sviluppo di nuovi prodotti,
come fanno gli industriali dei paesi più progrediti, occorrono
ampi investimenti a rendimento non immediato.

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Fonte: «La Repubblica» del 9 febbraio 2001

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