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Non sempre la crisi è un buon alibi

«Gli italiani sono mediamente ricchi, hanno un’elevata speranza di vita, sono in gran parte soddisfatti delle loro condizioni: l’inazione è sostenibile per un periodo anche lungo; potrebbe generare un declino protratto. Ma quegli stessi indicatori mostrano che l’inazione ha costi immediati: la ricchezza è il frutto di azioni e decisioni passate, il Pil, legato alla produttività, è frutto di azioni e decisioni prese guardando al futuro. Privilegiare il passato rispetto al futuro esclude dalla valutazione del benessere la visione di coloro per cui il futuro è l’unica ricchezza: i giovani».
In queste parole pronunciate un mese fa dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi c’è la sintesi dell’Italia di oggi: un paese seduto, che sopravvive abbastanza bene grazie a quanto ha accumulato in passato e che non si occupa di garantire un futuro sostenibile ai suoi giovani. Se n’è accorto anche il Censis, un pensatoio tradizionalmente incline all’ottimismo, quando nel suo ultimo rapporto ha messo in evidenza come, nel decennio della globalizzazione (2001-09), il Pil italiano sia cresciuto dell’1,4% in termini reali mentre la popolazione residente è aumentata del 5,8% e gli occupati dell’8,3 per cento.
Il che vuol dire che con lo stesso prodotto o quasi, dopo dieci anni devono “mangiare” sei persone in più ogni 100 abitanti e devono ottenere un reddito otto lavoratori in più ogni 100.
La Grande crisi c’entra relativamente. Perché negli altri paesi i dati raccontano una storia diversa. In nessun posto la flessione del 2009 ha azzerato i progressi di un decennio. È vero peraltro che il governo Berlusconi non ha potuto utilizzare la leva del bilancio pubblico per fronteggiare la recessione: il livello di guardia raggiunto dal debito pubblico ha costretto il ministro dell’Economia Giulio Tremonti a chiudersi in difesa. Il suo “catenaccio” ha consentito all’Italia di navigare senza scosse tra i marosi della crisi ma ha anche impedito di attuare politiche per rimettere in moto la crescita.
Per la verità non tutte le politiche costano. Servono soldi pubblici per fare infrastrutture o per incentivare i consumi. Ma non ne servono affatto per quelle riforme che, introducendo più flessibilità nei mercati, possono stimolare la crescita. E da questo punto di vista il bilancio di metà legislatura del centro-destra risulta davvero povero. Uscita dalle elezioni del 2008 con una maggioranza parlamentare senza precedenti, l’alleanza Pdl-Lega ha ottenuto un implicito rinnovo del mandato di fiducia dagli elettori alle europee del 2009 e alle regionali del 2010. Eppure l’azione del governo Berlusconi è andata avanti a strappi, a colpi di voti di fiducia, senza un disegno complessivo cui fare riferimento.
Basta pensare ai passi indietro che si sono fatti nella liberalizzazione delle professioni. L’esempio più vistoso è la riforma dell’avvocatura con la reintroduzione delle tariffe minime, il divieto di compensi legati all’esito della causa, l’impossibilità di formare società di capitali attraverso le quali esercitare la professione.
Le liberalizzazioni non sono state un cavallo di battaglia del governo e della maggioranza. Se ne è parlato poco quasi che prevalesse il timore di scontentare le lobby, con il loro carico di voti. La nuova legge sulla gestione dei servizi idrici sembrava poter dare buoni frutti ma è rimasta impaludata tra i referendum abrogativi lanciati dall’opposizione e altri ostacoli come la mancata decisione sull’autorità di vigilanza.
La legge annuale sulla concorrenza, che doveva essere la novità di quest’anno, giace ancora nei cassetti del ministero. Invece di aumentare l’efficienza della giustizia civile, una vera e propria palla al piede per l’economia soprattutto nel Mezzogiorno, il parlamento è stato impegnato per mesi nelle leggi sulla tutela giudiziaria del presidente del consiglio e delle altre alte cariche dello Stato.
Il piano per realizzare le centrali nucleari non decolla. Gli elenchi delle «opere prioritarie» – ha scritto l’economista Marco Ponti su lavoce.info – sono stati numerosi: da 19 a 9 opere, poi 182 e ora 27. Pazienza, purché se ne completi qualcuna.
Eppure c’è chi descrive un’Italia florida e senza problemi: una bilancia commerciale (al netto dell’energia) in grande spolvero, un avanzo primario migliore di quello degli altri, una disoccupazione relativamente bassa, una ricchezza consistente e ben distribuita tra le famiglie, un debito basso del settore privato. Dati incontestabili, anche se visti con le lenti rosa. Resta il problema dell’inazione e del futuro. Perché chi governa non può limitarsi a gestire il presente ma deve guardare anche avanti.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 13 dicembre 2010

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