di Franco Debenedetti
Sarà perché siamo tutto il giorno su Internet, sarà perché tutti siamo concentrati a cercar risposte agli stessi interrogativi, ma sembra che sia aumentata la velocità di circolazione delle idee: ancora pochi giorni fa erano quelle sui dati per conoscere il presente, adesso son quelle sul “dove stiamo andando” per evitare di perdere il futuro. C’è una logica comune tra la strategia per quali e quanti dati raccogliere, e quella per evitare che il Paese “muoia guarito”, per mutuare la frase di Renaud Girard, il grande cronista di guerra del Figaro. E ciò, com’è ovvio, chiama in causa il Governo, la sua strategia, la sua capacità di far ripartire il Paese. E il giudizio, come si vedrà, è del tutto diverso da quello che ci raccontano le analisi demoscopiche: giudizio sia su quello è stato fatto, sia su quello che ci si dovrebbe preparare a fare per riportare le aziende a produrre e la gente a lavorare; e sulle le ragioni culturali e politiche che ne sono alla base.
La reazione di chiudere i voli dalla Cina è stata tempestiva, anche se incompleta. Per i primi focolai, Lodi e i Vo’ Euganeo, la decisione di chiuderli è stata pronta e, si direbbe, efficace.
Per le successive chiusure ci sono state incertezze nel decidere, e soprattutto errori nel comunicare. Il lockdown all’intero sistema sistema produttivo assomma errori di logica, di metodologia, di implementazione. Per le mascherine, prima si spiegò che non servono, almeno quelle comuni, a proteggersi dal virus; ma senza aggiungere che, in assenza di notizie certe su chi e quanti fossero i contagiati, sarebbe stato bene portarle per non diffondere il virus.
Per non parlare dei tamponi: si è iniziato a farne su larga scala, salvo repentinamente cambiare: solo perché a qualcuno dava fastidio che i numeri degli infetti crescesse più rapidamente che in Francia dove se ne facevano di meno? È stato un idiota orgoglio nazionalista (qualcuno ha perfino detto per non rovinare la stagione turistica) o il tanto radicato pregiudizio antiscientifico a prevalere? Chi ricorda i commenti di quei giorni non ha dubbi. Se abbiamo la scusa di aver seguito la WSO quando diceva di farne pochi, perché non si è invertito la rotta adesso che dice “test! test! test!”
C’erano già gli esempi della Corea, di Singapore, di Taiwan, basati sull’uso sistematico delle mascherine, sul tracciare tutti gli infetti e sul rintracciare i possibili contagiati, grazie ad app sullo smartphone. Da noi sono stati proposti ma non adottati. Perfino la mappatura per verificare l’osservanza del divieto di uscire, e il formarsi di assembramenti in parchi e zone di ritrovo, la stessa tecnica con cui sul navigatore vengono segnalati code e rallentamenti, basata su innocui dati anonimi, è stata vista con sospetto. Difficile non vedere in questo i timori da grande fratello e il rancore per i social che si fanno ricchi con i nostri dati, l’uno e gli altri diffusi a piene mani dai nostri populisti (e non solo da loro, ad essere obbiettivi).
La storia delle mascherine poi ha dell’incredibile. Possibile che nel Paese della moda, pur largamente basato su supply chain, non se ne possa costruire a milioni? La Miroglio vi si è dedicata: l’abbiamo mai sentita prendere ad esempio per stimolare gli altri? C’è un’azienda a Cormano da 50 anni specializzata nella produzione di dispositivi di protezione delle vie respiratorie, che ha raddoppiato la capacità produttiva. Adesso, dice Di Maio, ce li darà la Cina: ma chi ne ha visto le recenti esibizioni televisive, inevitabilmente avrà concluso che preferisce incassare il dividendo politico dei propri rapporti con quel Paese anziché rischiare di contaminarsi con quelli col capitalismo “neoliberista”.
Mancano anche valvole, respiratori, analizzatori di tamponi: possibile che il Governo neppure provi a mobilitare la seconda manifattura d’Europa per produrne di più? Oltretutto abbiamo già un’azienda italiana, Siare Engineering, che produce macchinari polmonari per mezzo mondo. Quanto c’entra da una parte il pregiudizio anti-privato che è nel DNA di tanta parte della maggioranza, dall’altra la diffidenza verso lo Stato che è inaffidabile anche quando compera? In Inghilterra la Dyson, quella degli aspirapolvere e degli asciugacapelli, in 10 giorni ha realizzato il prototipo di un respiratore, ne venderà 10.000 alla sanità del Regno Unito, e ne regalerà 6.000. In USA, la Abbott Labs, che ha inventato e produce apparecchi di analisi medicale, ha messo a punto un apparecchio delle dimensioni di un tostapane che è in grado di dare risposta in 5 minuti sulla positività di un campione. Abbiamo grandi aziende, alcune perfino pubbliche, a Genova abbiamo un centro di eccellenza nel fabbricare robot, abbiamo un’intera regione specializzata in meccatronica: nessuno che abbia pensato di potenziare quella che tra l’altro è una opportunità? Ma prevale l’idea bisogna centralizzare acquisti “a prescindere”, e che nulla senza bando?
Oltre al lockdown, la strategia del governo prevede che l’intervento medico sembra essere solo quello che si svolge dentro le strutture ospedaliere del servizio sanitario nazionale. Ma perché non coinvolgere anche i medici di famiglia? Invece a loro non è consentito fare eseguire né il tampone ai loro pazienti malati né la ricerca sierologica degli anticorpi a quelli che potrebbero aver avuto il morbo in forma lieve. Che fosse necessario fare tanti tamponi lo sapevamo da gennaio: se oggi siamo al 100% della capacità di analizzarli, che cosa si è fatto per aumentarla, mettendo in campo laboratori privati di analisi e cliniche universitarie, in modo da poter fare anche noi i drive-in dove si preleva il tampone senza neppure scendere dalla macchina? Non è per partito preso se in queste omissioni si vede la diffidenza verso tutto quello che non si volge all’interno delle strutture pubbliche.
Come se il funzionamento dei servizi della pubblica amministrazione fosse senza macchie. Sia chiaro: queste critiche non riguardano medici e infermieri che dànno prova di eroica dedizione e di esemplare efficienza, verso cui è doveroso esprimere riconoscenza e ammirazione, un esempio che non dovrà essere dimenticato.
In questi frangenti, la comunicazione dei dati è cruciale per la fiducia dei cittadini: ma mentre nel desktop della protezione civile compaiono i contagiati totali da inizio epidemia, cioè quelli attuali più i guariti più i morti, nella conferenza stampa delle 18, che è quella che alimenta tutte le notizie giornalistiche, si parla del numero dei contagiati attuali dall’esito dei tamponi comunicati: un numero più piccolo del reale, che quindi impressiona meno. Non ci si può fidare neppure del numero dei morti: i morti “normali”, cioè la media di quelli degli scorsi anni negli stessi giorni, sommati a quelli “ufficiali” da coronavirus sono considerevolmente di meno di quelli che risultano dallo stato civile. Ovvio pensare che a colmare la differenza siano largamente i morti per coronavirus a casa loro: ma nelle statistiche finiscono solo quelli che il coronavirus ha ucciso in ospedale. Eppure l’ISTAT ha accesso alle anagrafi dei comuni: era distratta o si è voluto evitare di spaventare ancor di più? Ancora: il Servizio Sanitario Nazionale dispone, almeno in certe regioni, del fascicolo sanitario online, in cui è ricostruita la storia clinica di ciascun cittadino; sarebbe stato possibile individuare le persone a rischio (per trascorsi interventi chirurgiche, per patologie croniche) per proteggerle isolandole; sarebbe diminuito così il numero di quelli che arrivano in pronto soccorso con un’ambulanza. Inefficienza, o paura di lederne la privacy?
La strategia del lockdown ha costi tremendi. Costi sociali: quello che è avvenuto nelle carceri dovrebbe ammonirci su quello che può succedere in certe periferie. Costi psicologici, violenze tra persone costrette a convivere in spazi angusti, pulsioni suicide in chi vive da solo.
Costi economici: per chi non lavora, per la rovina del nostro sistema industriale, per il fallimento dei conti pubblici. Bisogna pensare a soluzioni alternative, valutare se un cambio di strategia non riduca il costo di un ritorno alla normalità di cui tra l’altro non si vede l’inizio. Alcuni schemi di proposte cominciano a circolare: il Governo è abbastanza lucido e libero da pregiudizi esaminarle e soppesare costi e vantaggi?
Per prima cosa è necessario pensare alle dotazioni. Bisogna aumentare quelle ospedaliere, come sistemi di protezione, personale medico, capienza e dotazioni. Bisogna dotarsi, ed è il punto chiave, di capacità adeguata a testare, al limite, tutta la popolazione: per rilevare gli infetti (l’apparecchio Abbott fa 500 analisi all’ora, ogni 1000 apparecchi fanno mezzo milione di analisi al giorno) e per verificare la presenza di anticorpi che identifichino gli asintomatici e quelli che hanno fatto la malattia in forma lieve e ne sono usciti.
Bisogna separare la popolazione: i soggetti che, per età e per storia clinica, sono a rischio, vanno protetti, tenendoli separati del tutto dal resto della popolazione, requisendo, se del caso, alberghi. A tutti, tutti gli altri viene fatto il test sierologico: quelli che hanno fatto già la malattia senza o con sintomi minori, hanno gli anticorpi nel sangue, possono considerarsi immuni e quindi tornare a lavorare.
Quelli invece che risultano infetti sono sottoposti a quarantena per il tempo che serve, con controllo “coreano” dei loro spostamenti e delle persone incontrate.
E poi la prevenzione: in tutti i luoghi pubblici (ristoranti, alberghi, ospedali, supermarket) all’ingresso sistemi di controllo della temperatura, e all’interno obbligo di portare la maschera. E gel disinfettante ovunque.
Non c’è la certezza che chi ha gli anticorpi non corra più nessun rischio, sappiamo ancora troppo poco di questo virus. Ma di certezza abbiamo solo il tragico bollettino dei morti, e la probabile perdita di quello che questo Paese ha fatto in 70 anni, dalla nazione che era, uscita da vent’anni di dittatura e da cinque di guerra, alla nazione fondatrice dell’Europa, membro del G7, seconda manifattura europea. L’ha fatto con i sacrifici, la volontà, la visione dei suoi cittadini e delle sue imprese.
E’ una fortuna sorprendente che il Governo goda di un giudizio positivo, anche se, come si è cercato di mostrare, non se lo merita. Adesso però si tratta di rimettere presto il Paese al lavoro. Si tratta, e qui il percorso è ancor più denso di incognite, di compensare la quota di PIL che abbiamo già perduta e ancora perderemo, e di finanziare la ripresa. Sono in grado di affrontarlo questo Governo, questa maggioranza? Lasciando che le imprese si inventino il nuovo modo di produrre e guadagnare nel dopo che verrà? Perché al suo interno c’è chi invece pensa, e forse auspica, di provarci con una pandemia statalista.
(IL FOGLIO, 1 aprile 2020)